Indiani d'America

Gli algonchini

Tra gli Algonchini, le donne potevano anche diventare capitribù. Nella coppia non erano sottomesse, e potevano anzi cacciare di casa lo sposo. Da buoni padroni di casa, gli indigeni si dimostrarono amichevoli, offrendo cibo e aiuto ai nuovi arrivati, ma quando pizzicarono nelle loro terre un gruppo di coloni, li catturarono.

Il loro capo, John Smith, venne trascinato di fronte a Wahunsonacock e due guerrieri gli appoggiarono la testa su una grossa

pietra. Erano pronti a spaccargliela con un sasso quando... “L’amabile figlia del re ha rischiato di perdere la sua testa al posto

della mia”, scriverà circa otto anni dopo Smith, in una lettera alla regina Anna d’Inghilterra. Pocahontas, raccontò Smith, gli strinse le braccia intorno al capo, chiedendo a suo padre di salvarlo, e questi l’accontentò.

Rito incompreso. A metà Ottocento alcuni storici dubitarono della veridicità del racconto, ma oggi quasi tutti ritengono che il leader di quei primissimi coloni avesse invece detto il vero. Solo, potrebbe non aver rischiato veramente la vita.

«Il salvataggio di John Smith viene generalmente considerato come un rituale che avrebbe sancito l’inclusione dell’insediamento

britannico di Jamestown nei domini di Wahunsonacock. In altre parole, il gesto di Pocahontas avrebbe rappresentato la disponibilità del capo a offrire protezione a chi, come Smith, avesse riconosciuto la sua supremazia», nota Luconi.

Né il rito né lo spavento bastarono a rendere i coloni meno invadenti. Pocahontas sapeva che il padre era preoccupato per le

terre della sua confederazione, ma quando sentì che avrebbe attaccato a sorpresa alcuni coloni guidati da Smith, corse a informare

l’inglese, salvandolo una seconda volta. La guidò l’amore: ma non quello per il capitano, su cui molti scrittori ricamarono

nei secoli successivi.

«Il comportamento di Pocahontas non fu “filocolonialista”: semmai aiutò gli Algonchini a prendere tempo e a ritardare lo

scontro aperto con i coloni britannici», dice lo storico. «Le donne dei nativi americani potevano influenzare le decisioni politiche

e avevano comunque una loro importanza per negoziare alleanze, in funzione del proprio rango».

Donne al potere. Tra gli Algonchini, infatti, il gentil sesso ricopriva anche ruoli di comando. Una zia di Pocahontas, Oppussoquionuske, fu capo di Mattica, un villaggio degli Appommattoc: dirigeva la tribù con lo stesso spirito con cui le altre

donne dirigevano la propria casa. Altro che squaw sottomesse! Le figlie, le sorelle, le mogli degli indiani d’America non erano in nessun caso considerate inferiori agli uomini, anche se si occupavano di agricoltura e bambini invece che di guerra e caccia. Anzi: più avanti di molte europee loro contemporanee, in alcune tribù avevano voce in capitolo persino nella scelta del proprio fidanzato.

Due cuori, un focolare e una capanna e il matrimonio era fatto. Per divorziare era sufficiente buttar fuori dalla tenda lo sposo

e le sue armi, senza troppe spiegazioni.

Per Pocahontas fu quindi facile accantonare Kocum, il primo marito ricordato nelle leggende dei nativi, rimpiazzandolo a

sorpresa con John Rolfe, un coltivatore di tabacco inglese. Ma un “fiume lucente che scorre tra le montagne” come si era potuto

impantanare in una piantagione?

iL TEEPEE AVEVA UNA STRUTTURA SOLIDA E RISCALDATA

Grazie alla forma conica, la struttura dei pali incrociati era una costruzione forte e stabile, resistente anche a forti venti.

In inverno si accendevano fuochi all’interno delle tende (con tappeti di fibre intrecciate) per sopportare le basse temperature e per

cucinare il cibo.

I COMFORT DEL TEEPEE

Con un diametro dai 2 ai 12 metri, le tipiche tende dei nativi erano diffuse soprattutto nelle pianure centrali del Nord America. Proteggevano dal freddo in inverno e dal caldo in estate.

BIOARCHITETTURA

Le pelli di bisonte per la copertura erano conciate e fatte essiccare stendendole su appositi telai.

 

L’impalcatura della tenda veniva coperta con pelli di bisonte opportunamente trattate. Se la porta era aperta, ogni persona era invitata a entrare. Se invece era chiusa la regola era chiamare e aspettare di essere autorizzati a entrare.

ATTIVITA' SOCIALI

C’era un forte senso di appartenenza al gruppo. In estate venivano spesso allestiti falò all’aperto.

 

 

RAPPORTI CON I COLONI

I rapporti con i coloni peggiorarono sensibilmente dopo la partenza di Smith nel 1609 e l’arrivo, l’anno successivo, di altre tre

navi di coloni guidate da Lord de la Warr. Animato da intenti bellicosi, quel veterano delle campagne militari inglesi razziò

i campi dei nativi, ne bruciò i raccolti e rubò loro le provviste. Tre anni dopo il suo sostituto, il governatore Samuel Argall,

completò l’opera facendo rapire la figlia di Wahunsonacock.

Riconciliatrice. I sequestratori erano convinti di avere in pugno il capo indigeno: chiesero la liberazione dei prigionieri

inglesi e la restituzione delle armi, ma non ottennero nulla più di qualche vecchio fucile e di 500 staia di mais. Gli scontri continuarono finché, stanca di tanta guerra, dopo un anno di prigionia Pocahontas prese in mano la situazione: annunciò al padre

che avrebbe sposato John Rolfe, in segno di riconciliazione tra le loro genti. Il matrimonio si celebrò il 5 aprile 1614 (dopo

il battesimo della sposa, “rinata” cristiana con il nome di Rebecca).

La decisione aveva poco a che fare con i sentimenti. «Il matrimonio di Pocahontas con Rolfe aveva una finalità diplomatica:

quella di consolidare i rapporti tra gli Algonchini della Virginia e i coloni inglesi», sostiene Luconi. «Il capo powhatan era solito collocare figli e figlie all’interno delle tribù subordinate, per esprimere il proprio ruolo di dominatore e di protettore attraverso la presenza fisica dei suoi discendenti diretti. Insomma, la politica matrimoniale non era certo sconosciuta agli Algonchini, anzi: era il fondamento del dominio di Wahunsonacock».

POCAHONTAS

La pace fra inglesi e Algonchini, stretta grazie al matrimonio di Pocahontas con Rolfe, morì con Wahunsonacock, al quale nel 1618

successe il fratello maggiore Opitchapam. In realtà fu Opechancanough, il minore e più bellicoso dei tre fratelli, a riprendere la guerra contro i coloni, nel 1622. Il 1° aprile di quell’anno massacrò 347 inglesi per vendicare un nativo, giustiziato perché sospettato della morte di un mercante bianco. Al cosiddetto “massacro di Jamestown” seguì la risposta dei coloni, che avvelenarono

a tradimento i rappresentanti delle tribù, dopo averli invitati a un consiglio di pace. Un modo di risolvere le questioni coloniali che ebbe un certo successo in seguito.

Ascia di guerra. A nulla servì l’accordo di pace firmato nel 1632: dopo altri dieci anni di guerra intermittente, nel 1644 l’ormai centenario Opechancanough dissotterrò l’ascia di guerra. A quel punto, però, i rapporti di forza si erano invertiti: la colonia inglese

contava circa 8mila coloni, il popolo Powhatan solo 5mila nativi. Il capo fu catturato nel 1646 e portato a Jamestown, dove si rifiutò di firmare la resa. Chiuso in gabbia, fu ucciso da una guardia che lo colpì alla schiena. Con la sua scomparsa la confederazione Powhatan perse definitivamente il proprio potere.

Quanto al confronto diretto indigeni-bianchi, una delle prime grandi ribellioni contro le ingerenze dei coloni si registrò nel 1622 con il massacro di Jamestown (Virginia), dove i nativi uccisero oltre 300 inglesi. La reazione fu diabolica: durante le trattative di pace i britannici offrirono liquore avvelenato agli indiani, uccidendone circa 200.

Episodi analoghi si susseguirono nei decenni, mentre nascevano le 13 colonie che costituiranno il nucleo degli Usa.

Un’altra fase di scontri si ebbe tra il 1763 e il 1766: una confederazione di tribù dell’area dei Grandi Laghi si scagliò contro gli inglesi in una serie di assedi e battaglie. Morirono poche migliaia di britannici e centinaia di migliaia di indiani (falcidiati anche da un’epidemia di vaiolo diffusa ad hoc dai visi pallidi).

Corsa all’Ovest. Le tensioni si inasprirono dopo la nascita degli Stati Uniti, nel 1776. A fare da detonatore fu l’espansionismo

della neonata confederazione: nel 1787 un’ordinanza stabilì la possibilità di fondare nuovi Stati nei Territori del Nordovest

e nel 1803 la dimensione degli Usa raddoppiò con l’acquisto della Louisiana francese.

«L’economia dei pionieri si basava sempre più su attività che implicavano l’utilizzo di vaste superfici (agricoltura e allevamento, soprattutto di bovini), da ottenere a qualsiasi costo», spiega Daniele Fiorentino, docente di Storia degli Stati Uniti all’Università Roma Tre. «Ecco perché il XIX secolo fu costellato da sanguinose guerre tra forze governative e indiani, e seppure i coloni bianchi non avessero come intenzione primaria quella di sterminare i nativi – c’è chi ha parlato di genocidio – nei fatti li decimarono, usurpandone con violenza le terre e mettendo in ginocchio tutta la loro economia».

A sancire il destino dei nativi fu l’Indian Removal Act, una legge del 1830 che ne dispose la deportazione a ovest del Mississippi,

lungo il “sentiero delle lacrime” (v. sopra). Nel 1862 si aggiunse l’Homestead Act, che concedeva ai pionieri vaste aree nel West. Qui spuntarono come funghi nuovi villaggi collegati da diligenze, linee telegrafiche e “cavalli d’acciaio”, le locomotive a vapore secondo gli indiani.

Bisonti addio. Al sorgere di villaggi si sommò la diffusione dei ranch, dedicati all’allevamento e costituite da steccati eretti attorno alle zone demaniali. A rendere più efficaci le recinzioni ci pensò un’invenzione apparentemente banale, ma in realtà rivoluzionaria: il filo spinato, che dal 1874 contribuirà a “domare” il selvaggio West. La vera tragedia per gli indiani fu però il massacro dei bisonti, su cui essi basavano la propria sussistenza sfruttandoli per sfamarsi e produrre manufatti.

Gli invasori privarono dei pascoli molti di questi animali oltre a sterminarli per dar da mangiare agli operai delle ferrovie,

facendone calare il numero da alcuni milioni a meno di un migliaio. “Non capisco come il cavallo d’acciaio che sputa fumo

possa essere più importante del bisonte, che uccidiamo per sopravvivere”, commentò ingenuamente il capo Duwamish.

Non la pensavano così i visi pallidi che, al grido di “ogni bisonte ucciso è un indiano morto”, allestivano tour ferroviari

con incluse battute di caccia. «Questi stravolgimenti ebbero duri contraccolpi economici  e psicologici sugli indigeni», avverte

l’esperto. «Il venir meno dell’importanza della caccia, frutto della sottrazione di territori e della scomparsa dei bisonti, per esempio, mise in crisi il ruolo maschile nelle strutture familiari». A far volgere la sorte a favore dei bianchi contribuirono la superiorità bellica (i letali fucili a ripetizione Winchester), la propagazione di malattie per le quali gli indiani non avevano anticorpi (spesso indotte dal commercio di coperte infette) e la diffusione di alcolici (che rendevano gli indigeni incapaci di combattere). Questi fattori permisero agli Stati Uniti di trionfare. I pascoli dell’Ovest furono recintati e gli indiani finirono nelle riserve, trasformati da nomadi a stanziali.

GLI INDOMABILI SIOUX

«A opporre l’ultima vera resistenza ai “visi pallidi” furono i Sioux, una confederazione di tradizione guerriera », prosegue lo storico. «Erano distribuiti tra la parte settentrionale delle Grandi Pianure e il corso superiore del Mississippi ed erano divisi in tre gruppi linguistici: i Lakota, i Dakota e i Nakota». Guidati da capi carismatici come Cavallo Pazzo, Piccolo Corvo, Piede Grosso e Toro Seduto, i Sioux diedero filo da torcere ai soldati dal 19 agosto 1854. A Fort Laramie (Wyoming), un gruppo di Lakota uccise

quel giorno 30 soldati bianchi in quello che i giornali dell’epoca – già abituati a denigrare i nativi – definirono “massacro di Grattan” (dal nome di un ufficiale di cavalleria morto) anche se i primi a sparare erano stati i militari a stelle e strisce. Nel

decennio successivo fu la volta della guerra di Piccolo Corvo, scoppiata nell’agosto 1862 allorché i Dakota del Minnesota si ribellarono al governo, reo non aver pagato il denaro previsto da un trattato del 1851.

La rivolta travolse New Ulm. In risposta, il 26 settembre 1862, a Mankato, furono impiccati 38 indiani nella più grande esecuzione di massa della storia statunitense.

Sempre come ritorsione alle rivolte, il 29 novembre 1864, Arapaho e Cheyenne presso il fiume Sand Creek subirono uno degli episodi più atroci: furono trucidate oltre cento persone, donne e bambini inclusi.

La vendetta arrivò a gennaio: un migliaio di guerrieri devastarono Julesburg e i ranch della zona. E non era finita.

Trionfi effimeri. Nel 1866, nel Wyoming, prese il via la “guerra di Nuvola Rossa” (dal nome del leader dei Sioux Oglala). Alla fine, i nativi strapparono agli Usa il Trattato di Fort Laramie (1868). In base a tale accordo agli indiani spettava il controllo di vari territori, tra cui l’area sacra delle Black Hills. Come accadeva spesso, il patto fu violato dagli Stati Uniti.

Il motivo? La scoperta, nelle Black Hills, di giacimenti d’oro e altri metalli preziosi. Iniziò così la “grande guerra” sioux

(1876-1877), che vide tra i protagonisti il capo spirituale Toro Seduto e l’impetuoso Cavallo Pazzo. Il 25 giugno 1876, presso

il torrente di Little Bighorn (Montana), gli indiani travolsero Custer. Ma fu solo una parentesi. Nel settembre del 1877 Cavallo

Pazzo cavalcava nelle praterie del cielo.

E dal 1883 Toro Seduto si trasformò in “uomo immagine” nel Wild West Show, lo spettacolo itinerante di Buffalo Bill.

«Una nuova speranza nacque nel 1890, quando si diffuse un culto che ruotava attorno a una danza rituale, la Ghost Dance», continua Fiorentino. «Si credeva che praticando la “danza degli spiriti” si sarebbe favorito il sorgere di un mondo senza

bianchi, in cui gli avi sarebbero tornati in vita e le terre si sarebbero ripopolate di bisonti». La Ghost Dance suscitò entusiasmi

tali da intimorire le forze governative.

A rimetterci la pelle fu anche Toro Seduto. Accusato di volere guidare una rivolta dei seguaci del nuovo culto, fu ucciso in

uno scontro a fuoco, il 15 dicembre 1890. 

Partita chiusa. L’ultimo e definitivo massacro i Sioux lo subirono, appunto, a Wounded Knee. Ecco i fatti: il 28 dicembre,

nella riserva di Pine Ridge i soldati del Settimo Cavalleria catturarono centinaia di Lakota adepti della Ghost Dance.

Alla loro guida c’era Piede Grosso. Furono condotti in un accampamento vicino al torrente Wounded Knee, dove il 29 dicembre

fu ordinato loro di consegnare le armi. Coyote Nero, un giovane che non aveva consegnato l’arma perché era sordo, indispettì

i soldati. Lo circondarono e, pare, a qualcuno partì un colpo. Fu il via all’ecatombe: le mitragliatrici falcidiarono anziani, donne e bambini, uccidendo da 153 a oltre 300 nativi, a seconda delle stime. Tra i cadaveri nella neve c’era anche quello di Piede Grosso. «Dopo anni di tradimenti e violenze, i Sioux, che a inizio ’800 erano quasi 500mila, erano ridotti a meno di 80mila, rinchiusi nelle riserve», conclude lo storico. «Quello stesso anno l’addetto al censimento federale dichiarò chiusa la frontiera dell’Ovest: tutte le terre colonizzabili erano state occupate». • Matteo Liberti

 

Con l’espansione degli Stati Uniti verso l’Ovest si scontrarono due economie: quella dei pascoli recintati e quella dei bisonti lasciati liberi 

Accordi violati Gli indiani accampati a Fort Laramie, dove fu siglato l’accordo (poi violato dagli Usa) del 1868. A destra, i delegati sioux a Washington nel 1891, dopo Wounded Knee. esecuzione-

 

Siamo stati costretti a bere l’amaro calice dell’umiliazione [...]; la nostra patria e le tombe dei nostri padri ci sono state strappate [...], contempliamo un futuro in cui i nostri discendenti saranno forse estinti”. È così che John Ross, capo del popolo Cherokee, riassunse il dramma vissuto dai nativi che tra il 1831 e il 1838 vennero deportati lungo il cosiddetto Trail of tears, il “sentiero delle lacrime".

“Coltello affilato”. Responsabile principale di quella deportazione di massa fu il presidente statunitense Andrew Jackson, noto tra gli indiani con il poco affabile nome di “coltello affilato”.

Il 28 maggio 1830 Jackson firmò una legge – l’Indian Removal Act – che attraverso una serie di equilibrismi giuridici (e contro

il parere di parecchi parlamentari) pose le basi per il graduale trasferimento delle tribù del Sud-est.

Per far spazio all’avanzata dei pionieri i padroni di quelle terre furono costretti a migrare in riserve a ovest del Mississippi. La

marcia forzata costerà la vita a decine di migliaia di indigeni delle popolazioni Cherokee, Chickasaw, Choctaw (i primi a parlare

di un “sentiero di lacrime e morte”), Creek e Seminole. Si trattava delle “Cinque tribù civilizzate”, quelle meglio adattate allo

stile di vita dei bianchi. 

Amarezze. Particolarmente ingiusto fu il destino dei Cherokee, allontanati dalla Georgia nonostante la Corte Suprema avesse

dichiarato incostituzionale il trasferimento. Per volere del solito Jackson oltre 16.000 di loro furono “delocalizzati”: quasi un

terzo morirà lungo il cammino (percentuali simili riguardarono anche le altre quattro tribù).

Oltre a essere lunga centinaia di miglia, la marcia era un susseguirsi di pericoli: intemperie, malattie, scarsità di viveri e attacchi

di banditi. I soldati incitavano le carovane a tirar dritto senza badare a chi restava indietro, morti inclusi (lasciati spesso senza

sepoltura). E al termine di questa odissea invece di una Terra Promessa trovarono territori inospitali, dove sopravvivere era

un’impresa.

Il 25 giugno 1876, nella battaglia di Little Bighorn, George Armstrong Custer pagò (e fece pagare ai suoi) il prezzo di un’ambizione sfrenata. Il 1876 doveva essere un anno di celebrazioni per gli Stati Uniti. Non solo perché era il centenario della

Dichiarazione di Indipendenza, ma anche perché a Filadelfia, dove si era siglato il documento, a maggio si inaugurava l’Expo. Un “inno alla gioia” della giovane nazione. Nonostante gli entusiasmi, già durante l’estate, giungevano però alla spicciolata notizie poco confortanti dal cosiddetto Far West: parte del 7° Reggimento Cavalleria del colonnello Custer era stato sterminato fino all’ultimo uomo da una coalizione indiana nei pressi della riserva nel Nord-ovest dove si era combattuta la battaglia di Little

Bighorn. Fu la “Caporetto” dell’esercito a stelle e strisce. 

Sulle Colline Nere. Per capire cosa era successo, bisogna riavvolgere le lancette della Storia di qualche anno. Esattamente fino al 1868, quando fu firmato un trattato che pose fine alla guerra capeggiata da Nuvola Rossa: stabiliva i confini della Grande Riserva Sioux lasciando ai nativi una vasta area esterna su cui avevano il diritto di cacciare, muoversi e accamparsi. Cinque anni

dopo, con l’arrivo della ferrovia, la situazione si complicò: il percorso della Northern Pacific doveva attraversare parte di quelle terre (dove, si diceva, era stato trovato l’oro).

Il governo tentò una mediazione offrendo di acquistare la proprietà dei territori (mai ceduti dagli indiani), ma non funzionò: “Non si vende la terra sulla quale la gente cammina”, rispose il capo Cavallo Pazzo.

Più aumentavano tensioni e incidenti, più cresceva la propaganda tra l’opinione pubblica americana: i nativi furono travolti da una vera “macchina del fango”, descritti come incapaci di sfruttare le potenzialità di quelle terre presentate come un paradiso per i coloni.

Lo stesso Custer aveva partecipato a questo story telling. Incoraggiato dai finanziatori della Northern Pacific, aveva iniziato a scrivere per i giornali di New York reportage sulla sua spedizione esplorativa, esaltando la fertilità delle vallate e alludendo alla seria possibilità che ci fosse l’oro. E, pur sapendo che la zona non era adatta alla coltivazione del grano e che il prezioso metallo non era stato ancora trovato, assicurò che sarebbero arrivati “il progresso e la ricchezza” grazie alla “superiorità naturale” dei bianchi.

Soluzione militare. Il governo pensò di sfruttare la situazione di stallo. Ricorse alla forza ed emanò un’ordinanza che imponeva

ai nativi di rientrare nella riserva entro il gennaio del 1876. In caso contrario sarebbero stati attaccati come bande in rivolta. La decisione era pretestuosa (su quel territorio il governo americano non era legalmente sovrano) e impraticabile.

L’area era enorme e le tribù non potevano essere informate dell’ultimatum in tempo. Senza considerare che non rispondevano a

un unico comando e che molte bande, come quelle di Toro Seduto e Cavallo Pazzo, rifiutavano ogni trattativa e non vivevano

nella riserva. La guerra diventò inevitabile e il governo poté addossarne la responsabilità agli indiani.

In cerca di gloria. Mentre la campagna militare sulle Colline Nere incombeva, George Armstrong Custer continuava  a coltivare le sue amicizie nel mondo della finanza, in vista dei suoi investimenti nell’Ovest. Così come la sua immagine di eroe della frontiera ed esperto di quelle terre selvagge. Aveva fatto carriera nell’esercito fino a diventare temporaneamente generale durante la Guerra civile, poi era stato messo al comando del 7° Cavalleria con il grado di tenente colonnello. Ambizione sfrenata e arroganza in lui andavano a braccetto ed era noto per la durezza con cui trattava i suoi uomini. Nel 1867 era finito davanti alla corte marziale con l’imputazione di crudeltà verso i propri soldati.

Dopo un anno di sospensione dal servizio, era di nuovo alla testa del reggimento durante il massacro degli indiani nella Battaglia

di Washita, in Oklahoma. Tornò utile quando il comando generale dell’esercito federale vide nell’intervento nelle Colline Nere la possibilità di stroncare la resistenza delle nazioni indiane delle Grandi Pianure del Nord, confidando sulla loro inferiorità numerica e sulla maggiore disciplina delle giacche blu. Attraverso tre colonne partite dai forti del Montana, del Wyoming e del Nord Dakota, l’esercito doveva convergere nella zona per individuare gli accampamenti e spingere gli indiani all’interno della riserva.

Errore fatale. Il reggimento di Custer, tuttavia, il 25 giugno 1876 si distaccò dalla colonna partita da Fort Lincoln (Nord Dakota) per raggiungere il fiume Little Bighorn, individuare il nemico e aspettare lì l’arrivo della fanteria.

Custer, come al solito, era spinto dal desiderio di fare bella figura. Riuscì ad avvistare l’accampamento indiano con un giorno di anticipo, sottoponendo i soldati a massacranti marce forzate. Senza aspettare i rinforzi mise in atto una manovra di accerchiamento che separò il reggimento in più colonne. Un errore fatale, perché i reparti sarebbero rimasti troppo lontani tra loro senza potersi aiutare.

Quando si rese conto della reale consistenza del nemico, mandò il trombettiere John Martin a chiedere aiuto. Ma era troppo tardi. I rinforzi che Martin raggiunse erano già impegnati a difendersi da un assedio su una collina e non potevano soccorrere Custer, che aveva ormai iniziato la sua ultima battaglia, che gli americani chiamano Custer’s Last Stand e che Hollywood trasformerà in un

episodio di eroica resistenza. I rinforzi che Martin raggiunse erano già impegnati a difendersi da un assedio su una collina e non potevano soccorrere Custer, che aveva ormai iniziato la sua ultima battaglia, che gli americani chiamano Custer’s Last Stand e che Hollywood trasformerà in un episodio di eroica resistenza.

Fallita la carica iniziale, i reparti di Custer cominciarono a sfaldarsi, offrendo il fianco agli attacchi dei nativi, che li accerchiarono

e in meno di un’ora uccisero tutti. Diversamente da quanto immaginato da Custer, le forze alleate dei Sioux, dei Cheyenne e degli

Arapaho si erano rivelate di una schiacciante superiorità numerica, con diverse migliaia di fieri guerrieri in lotta per la sopravvivenza.

I soldati giunti sul posto due giorni dopo trovarono sul terreno oltre 200 cadaveri: di quella colonna si era salvato solo il

trombettiere Martin. La fine ingloriosa di Custer fu comunicata ai giornali una decina di giorni dopo, proprio quando andava

in stampa uno dei suoi ultimi reportage. 

Reazione. Per i nativi, la storica vittoria paradossalmente avrebbe rappresentato l’inizio della fine. L’esercito reagì intensificando

la campagna militare, che presto li costrinse alla resa. Le Colline Nere e parte della riserva passarono sotto la sovranità

statunitense.

A parte capi come Cavallo Pazzo o Toro Seduto, protagonisti di un’ultima resistenza prima della morte o della resa, gli indiani

furono costretti a vivere dentro la riserva e a sotterrare per sempre l’ascia di guerra. • Gian Domenico Iachini

 

 

GLI ITALIANI DEL 7° CAVALLERIA

Il solo sopravvissuto della colonna di Custer nella battaglia di Little Bighorn, il trombettiere John Martin, era un italiano.

Si chiamava in realtà Giovanni Martini, emigrato negli Stati Uniti nel 1874 e con un passato di tamburino tra i garibaldini. Ma

non era l’unico italiano del 7° Cavalleria, costituito nel 1866. Il reggimento era in gran parte formato da veterani della Guerra civile, ma c’era anche un buon numero di immigrati. Tra questi, una decina di soldati di origine italiana.

Scampati. In gran parte ebbero la fortuna di non trovarsi nella colonna di Custer. Chi quel giorno era stato assegnato ai

rifornimenti nelle retrovie, come Giovanni Casella e Augusto Devoto, o chi faceva parte della  banda del reggimento, i musicisti

Felice Vinatieri e Francesco Lombardi, non presero parte alle operazioni militari e portarono a casa la pelle.

Erano arrivati dal Sud come dal Nord dell’Italia, per ragioni di tipo diverso: chi come esule politico, chi in cerca di fortuna.

Tra gli italiani del 7° Cavalleria c’era anche un conte dalla vita avventurosa, il patriota e militare bellunese Carlo di Rudio.

Garibaldino, e in seguito condannato all’ergastolo per aver preso parte al fallito attentato a Napoleone III, di Rudio era riuscito

a fuggire dalla Guyana francese e ad approdare negli Usa, dove si arruolò con i nordisti. Fu tra i soldati del 7° che resistettero all’assedio indiano sulle colline, nonché uno dei testimoni nell’inchiesta dell’esercito sul controverso operato di Custer.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Focus - Dalla parte degli Indiani