In questa pagina vengono proposti gli incipit di libri editi recentemente, best sellers e romanzi scelti tra quelli maggiormente venduti. Per alcuni di essi verrà proposta anche una breve recensione sulla pagina Ho letto per voi....
DACIA MARAINI - Bagherìa (1996)
JOSE' SARAMAGO - Memoriale dal convento (1996)
Il terzo gemello - Ken Follett 1996
Helen Fielding - Il diario di Bridget Jones (1996)
ARTHUR GOLDEN - Memorie di una geisha (1997)
Joanne Harris - Chocolat (1998)
Thomas Harris - Hannibal (1999)
Tracy Chevalier - La ragazza con l'orecchino di perla (1999)
Andrea Camilleri - Gli arancini di Montalbano (1999)
Sveva Casati Modignani - Vicolo della duchessa (1999)
DAVID GROSSMAN - Che tu sia per me il coltello (1999)
Bagheria l'ho vista per la prima volta nel 47. Venivo da Palermo dove ero arrivata con la nave da Napoli e prima ancora da Tokyo con un'altra nave, un transatlantico. Due anni di campo di
concentramento e di guerra.
Una traversata sull'oceano minato. Sopra il ponte ogni giorno si facevano le esercitazioni per buttarsi ordinatamente in mare, con il salvagente intorno alla vita, nel caso che la nave
incontrasse una mina. Di quella nave conservo una piccola fotografia in cui si vede un pezzo di ponte battuto dal vento e una bambina con un vestito a fiori che le sventola sulle gambe
magre.
Quella bambina ero io, avevo i capelli corti, quasi bianchi tanto erano biondi, le scarpe da tennis rosse ed ero tenuta per mano da un ufficiale americano. Ero molto amata dai marines americani,
ricordavo loro le figlie bambine lasciate a casa. Mi colmavano di regali: barrette di cioccolata, scatoloni di polvere di piselli, bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse. Uno di loro mi
amò al punto da portarmi in camera sua facendomi fare tre piani di scale a piedi, di corsa, dietro le sue lunghe gambe di giovanotto. Quando, dopo avermi mostrato le fotografie della figlia di
sei anni, cominciò a toccarmi le ginocchia, presi il fugone. E feci all'indietro, quasi rotoloni, tutte le scale che avevo fatto in salita con lui. Fu in quell'occasione che capii qualcosa
dell'amore paterno, così tenero e lascivo a un tempo, così prepotente e delicato. La notte sognavo di essere inseguita da un aereo che mitragliava i passanti, cacciandoli come farebbe un
falco.
Scendeva in picchiata e aggrediva alle spalle, lasciando dietro di sé un poco di polvere sollevata dal frullio delle ali e un sapore eccitato di paura e di fuga. La morte e io eravamo diventate
parenti.
La conoscevo benissimo. Mi era familiare, come una cugina idiota con cui si ha voglia di giocare e da cui ci si aspetta qualsiasi cosa: sia un gesto affettuoso che un calcio, sia un bacio che una
coltellata. A Palermo ci aspettava la famiglia di mia madre. Un nonno morente, una nonna dai grandi occhi neri che viveva nel culto della sua bellezza passata, una villa del Settecento in rovina,
dei parenti nobili, chiusi e sospettosi. Al porto abbiamo preso una carrozza che ci avrebbe portati a Bagheria. L'abbiamo caricata di tutti i nostri averi che erano in verità pochissimi, essendo
tornati dal Giappone nudi e crudi, con addosso soltanto i vestiti regalati dai militari americani, senza soldi e senza proprietà. La carrozza prese per via Francesco Crispi, via dei Barillai, via
Cala di porto Carbone, in mezzo a mozziconi di case buttate giù dalla guerra. Poi porta Felice con le sue due belle torri, il Foro italico, quella che una volta si chiamava Marina, vicino alla
piazza Marina vera e propria dove si tenevano le più grandi feste palermitane, ma anche dove si eseguivano le impiccagioni, gli squartamenti.
Il terzo gemello - Ken Follett 1996
L'ondata di caldo avvolgeva Baltimora come un sudario. I sobborghi verdeggianti erano rinfrescati da migliaia di irrigatori, ma gli abitanti più ricchi se ne stavano chiusi in casa con l'aria condizionata al massimo. Sulla North Avenue, prostitute svogliate cercavano l'ombra e sudavano sotto le parrucche, mentre all'angolo della strada i ragazzi vendevano droga che estraevano furtivamente dalle tasche dei calzoncini. Era settembre inoltrato, ma l'autunno sembrava ancora lontano.
Una Datsun bianca arrugginita, il vetro di un faro tenuto insieme con due strisce di nastro isolante, attraversò lenta il quartiere di proletari bianchi a nord del centro. La macchina era priva di aria condizionata e il guidatore aveva abbassato tutti i finestrini. Era un bell'uomo di ventidue anni, indossava jeans tagliati, una T-shirt bianca pulita e un berrettino da baseball rosso con la parola SECURITY scritta a lettere bianche. Il sedile di plastica sotto le sue cosce era tutto bagnato di sudore, ma l'uomo non ci faceva caso. Era di buon umore. La radio era sintonizzata su 92Q, "Venti successi tutti di seguito!". Sul sedile del passeggero c'era un classificatore aperto e di tanto in tanto l'uomo gli lanciava un'occhiata, memorizzando una pagina di termini tecnici per l'esame dell'indomani. Per lui imparare era facile: gli bastavano pochi minuti di studio per assimilare la materia.
A un semaforo, gli si affiancò una donna bionda a bordo di una Porsche decappottabile. Le sorrise e le disse: «Bella macchina!». Lei distolse lo sguardo senza rispondere, ma lui credette di vedere l'ombra di un sorriso all'angolo della bocca. Nascosta dai grandi occhiali da sole, la donna aveva probabilmente il doppio dei suoi anni, come quasi tutte quelle che guidavano una Porsche. «Facciamo una gara fino al prossimo semaforo» le disse. Lei scoppiò a ridere, una risata musicale e maliziosa, poi ingranò la
prima con una mano piccola ed elegante e al verde schizzò via come un razzo.
Lui si strinse nelle spalle. Si stava solo esercitando. Costeggiò il campus alberato della Jones Falls University, un'università
molto più chic di quella che frequentava lui. Mentre passava davanti all'imponente ingresso, un gruppo di una decina di donne in tenuta da jogging gli passò di fianco correndo: calzoncini corti, Nike, T-shirt o canottiere madide di sudore. Era una squadra di hockey su prato che si allenava, pensò, e la ragazza dall'aria più atletica che guidava il gruppo doveva essere il capitano, che stava rimettendo le compagne in forma per la prossima stagione.
1.
Don Giovanni, quinto del nome nella successione dei re, andrà questa notte in camera di sua moglie, donna Maria Anna Giuseppa, che è giunta da più di due anni dall’Austria per dare infami alla
corona portoghese e fino ad oggi non ce l’ha fatta a ingravidare. Già si mormora a corte, dentro e fuori del palazzo, che la regina probabilmente ha il grembo sterile, insinuazione molto ben
difesa da orecchie e bocche delatrici e che solo fra intimi si confida. Che la colpa ricada sul re, neppure pensarlo, primo perché la sterilità non è male degli uomini, ma delle donne e per
questo tante volte sono ripudiate, e secondo, tangibil prova, se pur fosse necessaria, perché abbondano nel regno bastardi del real seme e anche ora la fila gira l’angolo.
Oltre a ciò, chi si consuma nell’implorare al cielo un figlio non è il re, ma la regina, e anche qui per due ragioni. La prima ragione è che un re, e tanto più se del Portogallo, non chiede quel
che unicamente è in suo potere dare, la seconda ragione perché, essendo la donna, naturalmente, vaso per ricevere, dev’essere naturalmente supplice, sia in novene organizzate che in orazioni
occasionali. Ma né la perseveranza del re, che, salvo difficoltà canonica o impedimento fisiologico, due volte a settimana compie vigorosamente il suo dovere reale e coniugale, né la pazienza e
l’umiltà della regina che, oltre alle preghiere, si sacrifica ad una immobilità totale dopo che si ritira da lei e dal talamo lo sposo, perché non si perturbino nel loro generativo accomodamento
i liquidi comuni, scarsi i suoi per mancanza di stimolo e tempo e cristianissimo ritegno morale, generosi quelli del sovrano, come ci si può attendere da un uomo che ancora non ha compiuto
ventidue anni, né questo né quello hanno fatto gonfiare fino ad oggi la pancia di donna Marianna. Ma Dio è grande.
PROPOSITI PER L'ANNO NUOVO.
COSE DA EVITARE
Bere più di quattordici alcolici la settimana.
Fumare.
Buttar via soldi per: impastatrici, gelatiere o altri marchingegni da cucina che non userò mai; libri di autori illeggibili da mettere in libreria per fare scena; biancheria sexy, inutile in
quanto sfidanzata.
Comportarsi in modo sciatto in casa: fingere sempre che qualcuno ti stia osservando.
Spendere più di quel che guadagno.
Perdere il controllo della posta in arrivo.
Cadere vittima di: alcolizzati, stressati del lavoro, allergici alle relazioni serie, gente fidanzata o sposata, misogini, megalomani, maschilisti, cialtroni sentimentali o scrocconi,
pervertiti.
Perdere la pazienza con mamma, Una Alconbury o Perpetua.
Prendersela per gli uomini: meglio essere calma e fredda come una regina delle nevi.
Prendersi cotte: meglio cercare di instaurare rapporti basati su una valutazione ponderata del carattere.
Sparlare alle spalle della gente: meglio trovare qualcosa di buono in tutti.
Lasciarsi ossessionare da Daniel Cleaver, nel senso che prendersi una cotta per il capo è patetico.
Essere depressa perché non ho il fidanzato: meglio coltivare calma interiore, autorità e stima di sé in quanto donna di un certo spessore, completa anche "senza" un fidanzato, in quanto è il modo
migliore per trovarlo.
COSE DA FARE
Smettere di fumare.
Non bere più di quattordici alcolici la settimana.
Ridurre di 8 centimetri la circonferenza delle cosce (leggi 4 centimetri ciascuna), seguendo una dieta anticellulite.
Depurarsi da tutte le sostanze estranee.
Dare ai poveri tutti i vestiti che non metto da più di due anni.
Migliorare la carriera e trovare un nuovo lavoro con un futuro.
Mettere da parte i soldi sotto forma di risparmi. Se possibile cominciare a pagare anche una pensione.
Essere più sicura di me e più decisa.
JEFFERY DEAVER - Il collezionista di ossa (1997)
Voleva soltanto dormire.
L'aereo era atterrato con due ore di ritardo e c'era stata un 'attesa infinita per i bagagli. E poi l 'autonoleggio
aveva fatto casino: la limousine se n 'era andata un 'ora prima. E così, ora stavano aspettando un taxi.
Lei era in fila con gli altri passeggeri, il corpo snello piegato in avanti per il peso del computer portatile. John sproloquiava qualcosa sui tassi di interesse e su nuovi modi possibili di rinegoziare l'accordo, ma tutto ciò che lei riusciva a pensare era: Sono le dieci e mezzo di venerdì sera. Voglio mettermi in tuta e buttarmi sul letto.
Gli occhi fissi sulla fiumana senza fine di taxi gialli.
Qualcosa, nel colore e nella somiglianza delle automobili tra loro, le ricordava gli insetti. E rabbrividì
alla sensazione di fastidio che le tornò in mente, un ricordo della sua infanzia sulle montagne, quando lei e il
fratello si imbattevano in un tasso sventrato da qualche animale o scalciavano un nido di formiche rosse e
rimanevano a osservare attoniti la massa umida di corpi e zampette brulicanti.
T.J. Colfax avanzò stancamente quando il taxi accostò e si fermò accanto alla banchina di attesa con uno stridio di freni. Il tassista aprì il bagagliaio, ma rimase in macchina. Avrebbero dovuto caricarsi da soli le valigie, la qual cosa mandò John su tutte le furie. Era abituato ad avere gente che faceva le cose al suo posto. A Tammie Jean non importava: di tanto in tanto, riusciva ancora a sorprendersi di avere una segretaria che le batteva a macchina le lettere e le archiviava i documenti. Buttò la valigetta nel bagagliaio, chiuse il portello e salì in macchina.
John entrò dopo di lei, sbatté la porta e si tamponò la faccia rotondetta e la testa semicalva come se lo sforzo
di infilare la sacca da viaggio nel bagagliaio gli avesse esaurito le forze.
"Prima fermata alla Settantaduesima Est", borbottò John attraverso il divisorio.
"Poi nell'Upper West Side", aggiunse T.J. Il pannello di plexiglas tra i sedili posteriori e quelli anteriori era
piuttosto rigato, e T.J. riusciva a malapena a vedere il tassista.
La macchina partì rapidamente e poco dopo si immise sull'autostrada verso Manhattan.
Capitolo Primo.
IMMAGINIAMO di essere seduti, voi e io, in una stanza silenziosa affacciata su un giardino, a parlare del più e del meno e a sorseggiare una tazza di tè verde, e che il discorso cada su un fatto avvenuto tanto tempo prima e che io vi dica: «Il pomeriggio in cui incontrai quell'uomo... fu il più bello della mia vita, e anche il più brutto». Sono convinta che mettereste giù la vostra tazza e replichereste: «Be', com'è possibile? Era il più bello od il più brutto? Una cosa esclude l'altra!» Di solito riderei di me stessa, dichiarandomi d'accordo con voi, ma la verità è che il pomeriggio in cui incontrai il signor Tanaka Ichiro fu al tempo stesso il migliore ed il peggiore della mia vita. Mi era sembrato un uomo così affascinante che persino il sentore di pesce che proveniva dalle sue mani aveva un che di profumato. Ma, se non l'avessi conosciuto, sono sicura che non avrei mai fatto la geisha. Nulla, nella mia nascita e nel modo in cui sono stata allevata, poteva lasciar presagire che sarei diventata una geisha di Kyoto.
Non sono neppure nata a Kyoto. Sono la figlia di un pescatore che abitava in un villaggio chiamato Yoroido, sulle rive del mar del Giappone. In tutta la mia esistenza sono ben poche le persone alle quali ho parlato di Yoroido, o della casa in cui sono nata, o di mio padre e di mia madre, o di mia sorella, di qualche anno maggiore di me... e certamente non ho mai raccontato come sono diventata geisha o che cosa voglia dire esserlo. Lascio che la maggior parte della gente si immagini che anche mia madre e mia nonna fossero geishe e che, non appena il periodo del mio svezzamento si era concluso, già io venissi istruita nell'arte della danza, o cose di questo genere. Ricordo che un giorno di molti anni fa, mentre stavo versando una tazza di saké a un uomo, costui disse casualmente che la settimana prima era stato a Yoroido. Be', mi sentii come un uccello che, dopo aver attraversato a volo l'oceano, incontra una creatura che conosce il suo nido. Ne fui così sconvolta che non riuscii a trattenermi dall'esclamare: «Yoroido! E' lì che sono nata e cresciuta!»
Quel poveretto! Sul suo viso passarono le più straordinarie e mutevoli espressioni. Fece del suo meglio per sorridere, ma più che un sorriso era una smorfia perché non riusciva a cancellare lo shock che gli si era dipinto in faccia. «Yoroido?» disse. «Non può essere!»
11 FEBBRAIO - MARTEDÌ GRASSO
Siamo arrivate con il vento del carnevale. Un vento tiepido per febbraio, carico degli odori caldi delle frittelle sfrigolanti, delle salsicce e delle cialde friabili e dolci cotte alla piastra
proprio sul bordo della strada, con i coriandoli che scivolano simili a nevischio da colletti e polsini e finiscono sul marciapiedi come inutile antidoto contro l'inverno. C'è un'eccitazione
febbrile nella folla disposta lungo la stretta via principale, i colli che si allungano per vedere il carro fasciato di carta crespata, con i suoi nastri svolazzanti e le coccarde di
cartoncino.
Anouk guarda, gli occhi spalancati, un palloncino giallo in una mano e una trombetta nell'altra, tra un cesto per la spesa e un triste cane marrone. Abbiamo visto altri carnevali, io e lei: una
processione di duecentocinquanta carri decorati a Parigi, il martedì grasso dell'anno scorso, centottanta carri a New York, due dozzine di bande che marciavano a Vienna, clown sui trampoli, le
Grosses Têtes con le loro teste ciondolanti di cartapesta, le majorettes con i bastoni che roteano e sfavillano. Ma a sei anni il mondo ha ancora una luce speciale. Un carro di legno, decorato
alla buona con oro, crespo e scene dalle favole. Una testa di drago su uno scudo, Raperonzolo con una parrucca di lana, una sirenetta con la coda di cellophane, una casetta di pan di zenzero,
tutta glassa e cartone dorato, una strega sulla porta che sventola le stravaganti unghie verdi di fronte a un gruppo di bambini silenziosi... A sei anni si possono scorgere dei particolari che
già un anno dopo vanno al di là delle nostre capacità. Dietro la cartapesta, la glassa, la plastica, lei riesce ancora a vedere la vera strega, la vera magia. Alza lo sguardo verso di me, gli
occhi sono brillanti, dello stesso azzurro-verde della Terra vista dallo spazio.
«Ci fermiamo? Ci fermiamo qui?». Devo ricordarle di parlare francese. «Allora? Ci fermiamo?». Mi si aggrappa alla manica. I suoi capelli sono un groviglio di zucchero filato nel vento.
1
Vien da pensare che un giorno così non possa che iniziare con un tremito.
La Mustang di Clarice Starling infilò rombando la rampa d'ingresso del Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (Batf) in Massachusetts Avenue. In ossequio alle leggi dell'economia, il Bureau
aveva preso in affitto la sede dal reverendo Sun Myung Moon.
La forza di pronto intervento aspettava a bordo di tre veicoli: in testa un ammaccato furgone con targa civile e, dietro, due furgoni neri dello Swat (Special Weapons and Tactics) carichi di
uomini e con i motori al minimo nel grande garage buio.
Starling tirò fuori dalla macchina la sacca con l'equipaggiamento e corse al furgone di testa, un veicolo bianco sporco con la scritta MARCELL'S CRAB HOUSE incollata sulle fiancate.
Quattro uomini la guardarono arrivare attraverso gli sportelli posteriori aperti. Starling era snella, nella tuta di tela blu, e si muoveva svelta sotto il peso dell'equipaggiamento, con i
capelli che rilucevano alla spettrale luce fluorescente.
«Donne. Sempre in ritardo» commentò un agente della polizia di Washington.
Il responsabile dell'operazione era l'agente speciale John Brigham del Batf. «Non è in ritardo. Non l'ho avvertita finché non ci hanno dato il via» disse. «Deve aver portato il culo fin qui da
Quantico... Ehi, Starling, passami la sacca.»
Lei batté il palmo della mano contro quello di Brigham. «Salve, John.»
Brigham mormorò qualcosa al trasandato agente chino sul volante e, prima ancora che gli sportelli si chiudessero, il furgone partì per emergere nel gradevole pomeriggio autunnale.
1664
La mamma non mi aveva detto che sarebbero venuti. Non voleva che sembrassi nervosa, mi spiegò in seguito. Mi stupii, perché pensavo che mi conoscesse bene. Gli estranei mi avrebbero visto serena.
Da bambina non piangevo mai. Solo mia madre si accorgeva di una certa tensione nelle mie mascelle e dello sgranarsi dei miei occhi, già grandi per loro natura.
Ero in cucina e stavo tritando le verdure quando udii delle voci provenire dalla porta d’ingresso: quella d’una donna, squillante come rame lucidato, e quella d’un uomo, grave e cupa come il
legno del tavolo su cui stavo lavorando. Voci di un genere che raramente si udivano in casa nostra. Mi suggerivano immagini di tappeti preziosi, libri, perle e pellicce.
Pensai con sollievo che solo poco prima avevo sfregato ben bene il gradino della porta d’ingresso.
La voce di mia madre – un tegame sul fuoco, una brocca – si avvicinava dalla stanza anteriore della casa. Venivano tutti verso la cucina. Misi al loro posto i porri che avevo tritato, quindi
posai il coltello sul tavolo, mi ripulii le mani nel grembiule e strinsi le labbra per spianarle.
La mamma comparve sull’uscio, gli occhi due mute esortazioni. La donna dietro di lei dovette abbassare la testa perché era molto alta, più alta dell’uomo che la seguiva.
In famiglia eravamo tutti bassi, persino mio padre e mio fratello.
La donna sembrava portata dal vento, sebbene fosse una giornata calma. Aveva la cuffia un po’ di sghimbescio, da cui erano sfuggiti piccoli riccioli biondi che le svolazzavano sulla fronte come
api, e che lei ricacciò indietro più volte con gesti nervosi. L’ampio colletto avrebbe avuto bisogno d’una buona stirata e non sembrava immacolato.
Si fece scivolare la mantella grigia giù dalle spalle, e allora mi accorsi che l’abito blu nascondeva una gravidanza. Il bebè sarebbe arrivato verso la fine dell’anno, o forse prima.
La prova generale
La nottata era proprio tinta, botte di vento arraggiate si alternavano a rapide passate d'acqua tanto malintenzionate che parevano volessero infilzare i tetti. Montalbano era tornato a casa da
poco, stanco perché il travaglio della jornata era stato duro e soprattutto faticante per la testa. Raprì la porta-finestra che dava sulla veranda: il mare si era mangiato la spiaggia e quasi
toccava la casa. No, non era proprio cosa, l'unica era farsi una doccia e andarsi a corcare con un libro. Sì, ma quale? A eleggere il libro col quale avrebbe passato la notte condividendo il
letto e gli ultimi pinsèri era macari capace di perderci un'orata. Per prima cosa, c'era la scelta del genere, il più adatto all'umore della serata. Un saggio storico sui fatti del secolo?
Andiamoci piano: con tutti i revisionismi di moda, capitava che t'imbattevi in uno che ti veniva a contare che Hitler era stato in realtà uno pagato dagli ebrei per farli diventare delle vittime
compatite in tutto il mondo.
Allora ti pigliava il nirbùso e non chiudevi occhio. Un giallo? Sì, ma di che tipo? Forse era indicato per l'occasione uno di quelli inglesi, preferibilmente scritti da una fimmina, tutto fatto
di intrecciati stati d'animo che però dopo tre pagine ti fanno stuffare. Allungò la mano per pigliarne uno che non aveva ancora letto e in quel momento il telefono sonò.
Cristo! Si era scordato di telefonare a Livia, certamente era lei che chiamava, preoccupata. Sollevò il ricevitore.
«Pronto? È la casa del commissario Montalbano?» «Sì, chi parla?» «Genco Orazio sono.»
E che voleva Orazio Genco, quasi settantenne ladro di case? A Montalbano quel ladro che in vita sua non aveva mai fatto un gesto violento stava simpatico e l'altro questa simpatia la
sentiva.
«Che c'è, Orà?» «Ci devo parlari, dottore.» «E cosa seria?»
La porta automatica si aprì silenziosamente al passaggio di un'anziana signora, alta e sottile, che entrò nella piccola hall dell'albergo Schloss Rundegg di Merano. Indossava un cappotto nero
bordato di zibellino e dal cappello, a tesa ampia, usciva qualche ricciolo biondo. Aveva un bel viso illuminato da grandi occhi verdi.
Il tassista che l'accompagnava posò due valigie bianche accanto a una cassapanca antica.
K Vielen Dank », ringraziò la signora.
K Bitte», replicò il tassista, e si allontanò salutando con un familiare semus il portiere che stava venendo incontro all'ospite.
«Sono Valeschi D, disse la signora. «È stata prenotata una camera a mio nome.»
«Infatti, l'aspettavamo. Buona sera, signora Valeschi. Ha fatto buon viaggio?» disse Giovanni, il portiere di notte. Era un uomo sulla cinquantina, dalla corporatura imponente e l'accento
meridionale che le ricordò subito la sua balia.
« Ottimo, grazie », rispose distrattamente la signora mentre sbottonava il cappotto su un abito rosso lacca. Si guardò intorno incuriosita. Riconobbe il soffitto a crociera con la colonna
centrale in pietra rosa che, a Natale, sua madre fasciava con rami d'abete e nastri di seta rossa. Adesso soltanto gli archi erano decorati da festoni di abete e palle dorate.
«Vuole accomodarsi, signora Valeschi? » la invitò Giovanni.
«Naturalmente », rispose, riscuotendosi dai ricordi. S'avvicinò al banco del ricevimento, sfilò i guanti, aprì la borsetta ed estrasse un documento d'identità.
«Faccio portare subito in camera i suoi bagagli», disse lui « È nella torre?» s'informò.
« Come aveva chiesto », confermò.
«A che ora servono la cena?» chiese la signora.
«Adesso. Sono le sette e mezzo.»
« Allora vado a tavola» decise.
In quel momento li raggiunse il maitre in abito nero, camicia immacolata, papillon rosso.
« Huber, la signora al tavolo trentadue D, ordinò il portiere all'uomo che annuì con un cenno del capo.
Solo allora la signora si rese conto che un impianto stereofonico diffondeva in tono sommesso le note di un canto di Natale.
DAVID GROSSMAN - Che tu sia per me il coltello (1999)
3 aprile
Myriam,
tu non mi conosci e, quando ti scrivo, sembra anche a me di non conoscermi. A dire il vero ho cercato di non scrivere, sono già due giorni che ci provo, ma adesso mi sono arreso.
Ti ho vista l'altro ieri al raduno del liceo. Tu non mi hai notato, stavo in disparte, forse non potevi vedermi. Qualcuno ha pronunciato il tuo nome e alcuni ragazzi ti hanno chiamato "professoressa". Eri con un uomo alto, probabilmente tuo marito. E' tutto quello che so di te, ed è forse già troppo. Non spaventarti, non voglio incontrarti e interferire nella tua vita. Vorrei piuttosto che tu accettassi di ricevere delle lettere da me. Insomma, vorrei poterti raccontare di me (ogni tanto) scrivendo. Non che la mia vita sia così interessante (non lo è, e non mi lamento), ma mi piacerebbe darti qualcosa che altrimenti non saprei a chi dare. Intendo qualcosa che non immaginavo si potesse dare a un estraneo. Inutile dire che questo non comporta obblighi da parte tua, non devi far nulla (sono quasi certo che non mi risponderai). Ma se, malgrado tutto, un giorno vorrai farmi sapere che leggi le mie lettere, troverai sulla busta il numero della casella postale che ho affittato questa mattina e che è destinata solo a te.