In questa pagina vengono proposti gli incipit di libri editi recentemente, best sellers e romanzi scelti tra quelli maggiormente venduti.
ANTONIO TABUCCHI - Sostiene Pereira (1994)
FREDERICK FORSYTH - Il pugno di Dio (1994)
SUSANNA TAMARO - Va' dove ti porta il cuore (1994)
JOHN GRISHAM - L'uomo della pioggia (1995)
MAURICE DANTEC - Le radici del male (1995)
DANIEL PENNAC - Il signor Malaussène (1995)
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Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d'estate. Una magnifica giornata d'estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che
fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell'imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il "Lisboa" aveva ormai una pagina culturale, e l'avevano affidata a lui. E lui, Pereira,
rifletteva sulla morte. Quel bei giorno d'estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava
sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile
dirlo. Sarà perché suo padre, quando lui era piccolo, aveva un'agenzia di pompe funebri che si chiamava Pereira La Dolorosa, sarà perché sua moglie era morta di tisi qualche anno prima, sarà
perché lui era grasso, soffriva di cuore e aveva la pressione alta e il medico gli aveva detto che se andava avanti così non gli restava più tanto tempo, ma il fatto è che Pereira si mise a
pensare alla morte, sostiene. E per caso, per puro caso, si mise a sfogliare una rivista. Era una rivista letteraria, che però aveva anche una sezione di filosofia. Una rivista d'avanguardia,
forse, di questo Pereira non è sicuro, ma che aveva molti collaboratori cattolici. E Pereira era cattolico, o almeno in quel momento si sentiva cattolico, un buon cattolico, ma in una cosa non
riusciva a credere, nella resurrezione della carne. Nell'anima sì, certo perché era sicuro di avere un'anima; ma tutta la sua carne, quella ciccia che circondava la sua anima, ebbene, quella no,
quella non sarebbe tornata a risorgere, e poi perché?, si chiedeva Pereira. Tutto quel lardo che lo accompagnava quotidianamente, il sudore, l'affanno a salire le scale, perché dovevano
risorgere? No, non voleva più tutto questo, in un'altra vita, per l'eternità, Pereira, e non voleva credere nella resurrezione della carne. Così si mise a sfogliare quella rivista, con
noncuranza, perché provava noia, sostiene, e trovò un articolo che diceva: «Da una tesi discussa il mese scorso all'Università di Lisbona pubblichiamo una riflessione sulla morte. L'autore è
Francesco Monteiro Rossi, che si è laureato in Filosofia a pieni voti, e questo è solo un brano del suo saggio, perché forse in futuro egli collaborerà nuovamente con noi».
L'uomo a cui non restavano che dieci minuti di vita stava ridendo.
Il motivo del suo divertimento era un aneddoto raccontato dalla sua assistente personale, Monique Jaminé, che lo accompagnava dall'ufficio a casa in quella sera fredda e piovigginosa del 22
marzo 1990.
L'episodio riguardava una collega della Space Research Corporation di rue de Stalle, una donna che tutti credevano un'autentica mangiauomini e che invece era risultata essere lesbica. L'inganno
solleticava lo spirito da caserma dello scienziato.
I due avevano lasciato l'ufficio nel sobborgo di Uccle, nella capitale belga, alle sette meno dieci; Monique era al volante della Renault 21 Nevada. Qualche mese prima aveva venduto la Volkswagen
del principale perché lui guidava in modo così disastroso da farle temere che prima o poi avrebbe finito per ammazzarsi.
Non più di dieci minuti di macchina separavano l'ufficio dall'appartamento nel palazzo centrale del complesso Cheridreu nei pressi di rue Francois Folie; ciononostante i due si fermarono a metà
del tragitto, davanti a una panetteria. Entrarono e l'uomo comprò una forma di pain de campagne, il suo preferito. Il vento portava qualche spruzzo di pioggia.
Costretti a chinare il capo, non si accorsero dell'auto che li seguiva.
Non c'era niente di strano. Nessuno dei due era esperto in fatto di spionaggio e di pedinamenti. La macchina priva di contrassegni con i suoi due passeggeri dalla carnagione scura seguiva lo
scienziato da settimane, senza perderlo mai di vista e senza avvicinarsi mai, limitandosi a osservarlo, e lui non l'aveva notata. Se n'erano accorti altri, ma lui non ne sapeva nulla.
Uscendo dalla panetteria di fronte al cimitero, gettò la pagnotta sul sedile posteriore e risalì in auto per l'ultimo tratto fino a casa. Alle sette e dieci Monique si fermò davanti alla porta a
vetri del palazzo, a una quindicina di metri dalla strada. Si offrì di salire con lui per accompagnarlo fino all'appartamento, ma l'uomo rifiutò. Monique sapeva il perché: aspettava la visita di
Hélène, la sua amante, e non voleva che le due donne si incontrassero. Lo scienziato si ostinava a sostenere, e le adoranti collaboratrici fingevano di credergli, che Hélène fosse soltanto una
buona amica e gli tenesse compagnia quando lui si trovava a Bruxelles e sua moglie era in Canada.
Scese dall'auto, rialzò come al solito il bavero dell'impermeabile e si caricò sulla spalla la grossa borsa di tela nera che non lo abbandonava quasi mai. La borsa pesava una quindicina di chili
e conteneva una quantità di carte, progetti, calcoli e dati. Lo scienziato diffidava delle casseforti ed era irrazionalmente convinto che i dettagli dei suoi progetti recenti fossero più al
sicuro sulle sue spalle.
Opicina, 16 novembre 1992
Sei partita da due mesi e da due mesi, a parte una cartolina nella quale mi comunicavi di essere ancora viva, non ho tue notizie. Questa mattina, in giardino, mi sono fermata a lungo davanti alla
tua rosa. Nonostante sia autunno inoltrato, spicca con il suo color porpora, solitaria e arrogante, sul resto della vegetazione ormai spenta. Ti ricordi quando l'abbiamo piantata?
Avevi dieci anni e da poco avevi letto il Piccolo Principe. Te l'avevo regalato io come premio per la tua promozione. Eri rimasta incantata dalla storia. Tra tutti i personaggi, i tuoi preferiti
erano la rosa e la volpe; non ti piacevano invece i baobab, il serpente, l'aviatore, né tutti gli uomini vuoti e presuntuosi che vagavano seduti sui loro minuscoli pianeti. Così una mattina,
mentre facevamo colazione, hai detto: «Voglio una rosa». Davanti alla mia obiezione che ne avevamo già tante hai risposto: «Ne voglio una che sia mia soltanto, voglio curarla, farla diventare
grande». Naturalmente, oltre alla rosa, volevi anche una volpe. Con la furbizia dei bambini avevi messo il desiderio semplice davanti a quello quasi impossibile. Come potevo negarti la volpe dopo
che ti avevo concesso la rosa? Su questo punto abbiamo discusso a lungo, alla fine ci siamo messe d'accordo per un cane.
La notte prima di andare a prenderlo non hai chiuso occhio. Ogni mezz'ora bussavi alla mia porta e dicevi: «Non riesco a dormire». La mattina alle sette avevi già fatto colazione, ti eri vestita
e lavata; con il cappotto addosso mi aspettavi seduta in poltrona. Alle otto e mezza eravamo davanti all'ingresso del canile, era ancora chiuso. Tu guardando tra le grate dicevi: «Come saprò qual
è proprio il mio?» C'era una grande ansia nella tua voce. Io ti rassicuravo, non preoccuparti, dicevo, ricorda come il Piccolo Principe ha addomesticato la volpe.
Siamo tornate al canile per tre giorni di seguito. C'erano più di duecento cani là dentro e tu volevi vederli tutti. Ti fermavi davanti a ogni gabbia, stavi lì immobile e assorta in un'apparente
indifferenza. I cani intanto si buttavano tutti contro la rete, abbaiavano, facevano salti, con le zampe cercavano di divellere le maglie.
La mia decisione di fare l'avvocato diventò irrevocabile quando mi resi conto che mio padre odiava gli avvocati. Ero un adolescente goffo, imbarazzato dalla mia goffaggine, frustrato nei
confronti della vita, terrorizzato dalla pubertà e in procinto di venire spedito da mio padre in una scuola militare per insubordinazione. Era un ex marine, convinto che i ragazzi andassero
tirati su a frustate. Io avevo dimostrato di avere la lingua svelta e una certa avversione per la disciplina, e la sua soluzione fu mandarmi via. Passarono anni prima che lo perdonassi.
Era anche ingegnere e lavorava settanta ore la settimana per una società che, fra le altre cose, fabbricava scale a pioli. Dato che le scale sono per natura pericolose, la società era spesso il
bersaglio di cause per danni. E siccome lui si occupava della progettazione, veniva scelto abitualmente per sostenere le ragioni della società nelle testimonianze e nei processi. Non posso dargli
torto se odiava gli avvocati; ma io avevo finito per ammirarli perché gli rovinavano l'esistenza. Passava otto ore a battersi con loro, poi si buttava sui martini non appena rincasava. Niente
saluti. Niente abbracci. Niente cena. Soltanto un'ora di sfoghi stizziti mentre tracannava quattro martini e finiva per addormentarsi sulla poltrona malandata. Una causa durò tre settimane e
quando si concluse con la condanna della società al pagamento di un cospicuo risarcimento, mia madre chiamò un medico, e nascosero mio padre in ospedale per un mese.
Più tardi la società fallì, e naturalmente tutta la colpa era degli avvocati. Non sentii ammettere neppure una volta che forse una gestione sbagliata poteva aver contribuito al fallimento.
I liquori diventarono la vita di mio padre, e lui diventò depresso. Per anni e anni non trovò un lavoro fisso, e questo mi mandava in bestia perché ero costretto a servire ai tavoli e a
consegnare pizze a domicilio per pagarmi il college. Credo di aver parlato con lui non più di due volte nei quattro anni del diploma. Il giorno dopo aver saputo che ero stato accettato alla
facoltà di legge, tornai a casa tutto orgoglioso e diedi la grande notizia.
Più tardi mia madre mi raccontò che mio padre era rimasto a letto per una settimana.
Quindici giorni dopo la mia visita trionfale, mio padre stava cambiando una lampadina nel locale della caldaia quando (giuro che è vero) la scala a pioli cedette, lui cadde e batté la testa.
Rimase in coma per un anno in un cronicario prima che qualcuno avesse la misericordiosa idea di staccare la spina.
Qualche giorno dopo il funerale accennai alla possibilità di fare causa, ma mia madre non se la sentì. E poi, ho sempre sospettato che mio padre fosse mezzo sbronzo quando cadde. Inoltre non
guadagnava, perciò, secondo le nostre leggi sul risarcimento danni, la sua vita aveva scarso valore dal punto di vista economico.
Mia madre ricevette i cinquantamila dollari dell'assicurazione sulla vita e si risposò. Un matrimonio sbagliato. Il mio patrigno è un tipo molto semplice, un impiegato postale in pensione, di
Toledo. Passano gran parte del tempo a ballare la quadriglia e a girare a bordo di un Winnebago. Io mi tengo alla larga. Mia madre non mi offrì un soldo dell'assicurazione: disse che dovevano
servirle per affrontare il futuro e siccome avevo dimostrato di essere capace di vivere con niente, era convinta che non ne avessi bisogno. Io avevo un avvenire brillante che prometteva lauti
guadagni, lei no. Sono certo che Hank, il nuovo marito, le riempisse la testa di consigli finanziari. Un giorno la mia strada e quella di Hank s'incontreranno ancora.
Finirò la facoltà di legge fra un mese, in maggio, e in luglio darò l'esame per l'ammissione all'ordine.
Andreas Schaltzmann si è messo ad ammazzare perché il suo stomaco marciva.
Il fatto non era isolato, tutt'altro: da parecchio tempo le onde emesse dagli Alieni gli scombinavano ogni organo. Il suo cervello era sottoposto a un fuoco di fila di radiazioni destinate a
trasformare anche lui, come tutti gli altri, in un robot senza coscienza al servizio della macchinazione inumana.
Da anni i nazisti e gli abitanti di Vega si erano installati nel suo quartiere, e lui era sicuro che non si fossero limitati solo a quello. Dappertutto, fino ai più imboscati meandri dello Stato,
il complotto delle Creature dello Spazio stendeva le sue ramificazioni distruttrici. Andreas poteva rendersene conto ogni giorno, guardando le trasmissioni televisive. C'era quel presentatore di
giochi che complottava contro il Papa e il Primo ministro Balladur; tutto lasciava credere che trasformasse la gente in fantocci.
Si era già rasato la testa, all'epoca, per "sorvegliare le ossa del suo cranio che cam-biavano di forma", ma dopo qualche tempo si era messo un cappellino da baseball per proteggersi dalle
radiazioni psichiche.
Quel mattino, Andreas si era accorto che il suo stomaco marciva quando il tubetto di dentifricio si era messo a luccicare, prima di trasformarsi in carne morta. Una fan-ghiglia sanguinolenta
dall'odore nauseabondo gli era colata fra le dita, sgusciando dal buco del tappo con un rumore di risucchio gigante. Aveva guardato la sua immagine nello specchio, e aveva visto lo spettacolo di
un mucchio di carne scorticata che si era frantumata in una moltitudine di schegge, prima di spargersi sul pavimento.
Da mesi non dormiva senza il suo cappellino, aveva tastato il tessuto privo di colore e impregnato di grasso ripetendo la "formula di protezione", più volte prima di scappare da casa. Aveva
vagato per tutta la giornata nel circondario, stava facendo notte quando uscì dall'A86 per inforcare la statale 305, ai confini fra Choisy-le-Roi e Vitry. Lì la statale si chiamava avenue Rouget
de Lisle, ma più avanti sapeva che sarebbe entrato in una zona controllata dalle creature di Vega.