Josif Aleksandrovič Brodskij . Non dimenticare mai
Non dimenticare mai
come sgorga l’acqua nella banchina,
e come è elastica l’aria.
Accanto i gabbiani gridano,
e i panfili guardano nel cielo,
e le nubi volano in alto,
come uno stormo di anatre.
Possa nel tuo cuore
dibattersi vivo e tremare
come un pesce un frammento
della nostra vita a due.
Possa sentirsi il fruscio delle ostriche,
e restare in piedi un cespuglio.
E possa la passione
che affiora fino alle labbra
aiutarti a capire, senza l’aiuto di parole
come la schiuma delle onde del mare,
per arrivare alla terra,
generi alte onde.
Josif Brodsky
Nella parte settentrionale del mondo ho trovato un rifugio
nella parte ventosa, dove gli uccelli, volando giù
dalle rocce, si riflettono nei pesci e scendono a dar di becco
fra i gridi su una superficie di screziati specchi.
Qui non trovi te stesso, anche chiuso a doppia mandata.
In casa non c'è un cane e freddo nero è in branda.
La finestra al mattino ha una tenda di cenci di nuvole.
Poca terra, e non si vedono uomini.
In queste ampiezze signora è l'acqua. Nessuno il dito
punta nello spazio e "via di qui" strilla.
L'orizzonte si rivolta come un cappotto,
aiutandosi con queste ondate mobili.
E non riesci a distinguerti dai pantaloni tolti, dalla maglia
appesa - evidentemente, i tuoi sensi sono corti
o la lampada ti oscura -. Tocchi il loro gancio
per dire, ritirando la mano: "sei risorto".
(da "Ninnananna da Cape Cod")
Chinati, ti devo sussurrare
Chinati, ti devo sussurrare all'orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c'è mano, e non c'è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frammento! Una dracma
d'oro è rimasta sopra la mia retina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.
(da "Poesie Italiane/Elegie romane")
Io ero solamente ciò
Io ero solamente ciò
che tu toccavi, quello
su cui – notte fonda, corvina –
la fronte reclinavi tu.
Io ero solamente ciò
che tu là in basso distinguevi:
sembiante vago, prima, e poi
molto più tardi, tratti.
Sei tu ardente, che
sussurrando hai creato
la conchiglia dell’udito
a destra, a manca, là, qui.
Tu che nell’umida cavità,
tirando quella tenda,
hai messo voce, perché
potesse te chiamare.
Cieco ero, nulla più.
Tu, sorgendo, celandoti,
hai dato a me la facoltà
di vedere. Si lasciano scie
così, e si creano così
mondi. Spesso, creati,
si lasciano ruotare così,
elargendo regali.
E, gettata così,
in caldo, in freddo, in ombra, in luce,
persa nell’universo,
ruota la sfera e va.
Poesia per la domenica
Non sono uscito di senno, ma sono stanco dell’estate.
Cerchi nel cassettone una camicia, e il giorno è perso.
Venga l’inverno e copra tutto, presto,
le città e le genti e, innanzitutto, il verde.
Io dormirò vestito, sfoglierò libri in prestito,
finché non se ne andrà per la sua strada l’anno,
quel che resta,
come il cane che sfugge al cieco e che traversa
lungo le strisce pedonali. È libertà
se scordi il patronimico del capo,
se è dolce la tua bocca più della chalvà
di Shiraz e se, col cervello strizzato
come il corno di un capro,
dall’occhio azzurro nessuna stilla scenderà
Sono nato...
Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove
onde grigie di zinco vengono a due a due;
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida
che fra queste si arriccia, come il capello umido;
se mai s’arriccia. Anche puntando il gomito, la conchiglia
dell’orecchio non distingue in esse nessun ruglio,
ma battiti di tele, di persiane, di mani,
bollitori su fornelli, al massimo strida di gabbiani.
In questi piatti paesi quello che difende
dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede
più lontano. Soltanto per il suono è ostacolo:
l’occhio non si lamenta per l’assenza di eco.
JOSEPH BRODSKY
Metti in serbo per le stagioni fredde
queste parole, per le stagioni dell'ansia!
Come il pesce sulla sabbia, l'uomo sopravvive:
se si strascina agli arbusti e s'alza
su gambe incerte e storte e va, come un rigo dalla penna,
nelle viscere stesse della terra.
Esistono leoni alati, sfingi col seno
di donna, angeli in bianco e ninfe del mare:
a colui che sostiene sulle sue spalle il peso
di buio, caldo e - oso dirlo - dolore,
sono più cari degli zeri concentrici nati
da parole gettate.
Disfano, i giorni, il cencio da Te fatto...
Disfano, i giorni, il cencio da Te fatto:
Si stringe a vista d'occhio, sotto mano.
La verde trama è presto diventata
Celeste, grigia, e poi marrone, stinta.
E ai bordi è lisa, come di batista.
Mai i pittori descrivono la fine
Del viale. A quanto pare si ritira,
A lavarlo, il vestito della sposa,
E anche il corpo non si fa più bianco.
Sia che secchi il formaggio, o manchi il fiato.
Ossia: l'uccello è un corvo, di profilo,
Ma in cuore è un canarino. E' che la volpe,
Quando l'azzanna, semplice, alla gola,
Non sta a badare se è sangue o tenore.
Farfalla
I
Dirò: sei morta?
con una vita di ventiquattr'ore!
Troppa amarezza
in questo scherzo del creatore.
Riesco con sforzo
a pronunciare "vita"
nell'unità di data
di nascita e di consunzione
fra le mie dita:
mi confonde obbligare
una di queste grandezze
nello spazio di un giorno.
II
Perché i giorni per noi
sono nulla. Un vuoto
zero, nulla. Non puoi
appuntarteli al muro e agli occhi
renderli commestibili:
sul bianco sfondo
non possedendo corpo
sono invisibili.
Come te sono i giorni,
e quale peso poi
rimpicciolito dieci volte
può avere un giorno?
III
Dirò: tu non esisti?
Ma cosa mai allora
di simile in te sente
la mia mano? e quei colori
d'inesistenza non son frutto.
E chi ha suggerito
quelle tue tinte?
Io non avrei la forza,
io, grumo borbottante
di parole al colore estranee,
di immaginare questa
tua tavolozza.
IV
Sulle tue ali piccole
pupille e ciglia
- o belle donne e uccelli -
o ritratto volante,
dimmi, di quali volti
questi sono frammenti?
E la tua nature morte
di quali particelle,
di quali briciole è fatta:
di cose, frutti?
o magari di pesci
un disteso trofeo?
V
Forse tu sei paesaggio;
attraverso una lente
scopro un gruppo di ninfe
e una danza e una spiaggia.
E fa chiaro laggiù come qui?
oppure è cupo come
di notte? e quale astro
percorre, di',
quella volta celeste?
Quali figure
in quel paesaggio? e, dimmi, è copia
di quale vero?
VI
Penso che tu
sia questo e quello:
di volto, oggetto, stella
tu rechi i tratti.
Quell’orafo chi fu
che cesellò di fino
senza aggrottare i sopraccigli
sulle ali quel mondo
che ci stringe, che impazzire ci fa,
quel mondo dove tu
sei l'idea della cosa
e noi la cosa stessa?
VII
Dimmi, perché quel vago
ricamo ti fu dato in dono
soltanto per un giorno
nel paese dei laghi,
le cui specchianti superfici
conservano lo spazio? A te invece
questa breve esistenza
riduce la speranza
di finir dentro una retina
di tremolare in mano, di sedurre
al momento della cattura
l'occhio del cacciatore.
VIII
Non mi risponderai,
e non per timidezza
o per ostilità
nei miei confronti
e non perché sei morta.
Viva, morta... ma
a tutte le creature del Signore
in segno di affinità
per conversare, per cantare
la voce è data in dono:
per prolungare l'attimo,
ed il minuto, il giorno.
IX
E invece tu,
tu non hai questo pegno.
A rigore però
così è meglio:
meglio che con i cieli
essere in debito.
Non affliggerti, se
la tua vita, il tuo peso
son privi di parola:
è un fardello anche il suono.
Sei più incarnale
del tempo tu, più muta.
X
Tu non arrivi a vivere
fino a provare la paura.
Più lieve della polvere
vortichi su un'aiuola,
fuori dalla prigione
dove il passato e l'avvenire
ci chiudono e ci soffocano,
e per questa ragione
quando, in cerca di cibo, intorno
vai volando sul prato
anche l'aria d'un tratto
prende una forma.
XI
Così la penna va
sopra la carta liscia
di un quaderno, e non sa
come finisce
ogni sua riga,
dove si mescolano
saggezza ed idiozia
ma si fida dei moti della mano,
nelle cui dita batte la parola
del tutto muta,
senza togliere polline dai fiori,
ma facendo più lieve il cuore.
XII
Tanta bellezza
per così breve tempo,
spinge a una congettura
che fa storcer la bocca:
dire con più chiarezza
che il mondo per davvero
creato è senza scopo, o invece,
se scopo esiste mai,
non siamo noi.
Entomologo-amico, per la luce
non ci sono spilli
né per il buio.
XIII
Ti dirò "Addio"?
e addio al giorno che si compie?
a certi uomini la tigna dell'oblio
il senno corrompe;
ma bada, è tutta
colpa del fatto
che hanno dietro le spalle
non giorni a letto in due
non sonni fondi
o sogni folli,
non il passato, ma nubi
di tue sorelle!
XIV
Sei migliore del Nulla.
O meglio: sei più prossima,
sei più visibile.
Di dentro, ad esso
del tutto simile.
Nel volo tuo
il Nulla acquista carne;
nel quotidiano strepito
ecco perché
uno sguardo tu meriti:
sei la barriera lieve
fra il Nulla e me.
Scrivo questi versi, seduto all’aperto
Scrivo questi versi, seduto all’aperto
su una sedia bianca,
d’inverno, con la sola giacca addosso,
dopo molto bicchieri, allargando gli zigomi
con frasi in madrelingua.
Nella tazza si raffredda il caffé.
Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi
la torbida pupilla per l’ansia di fissare nel ricordo
questo paesaggio, capace a fare a meno di me.
Sonetto
Peccato che per te la mia esistenza
diventata non sia quello che invece
per me la tua esistenza è diventata.
Dal mio deserto vecchio un’altra volta
lancio in un cosmo di filo spinato
un mio soldino stemmato, tentando
di celebrare disperatamente
un momento d’accordo...Chi non sa
sostituire il mondo con se stesso,
gira il disco sbrecciato del telefono,
come fa il medium con il tavolino,
in cerca d’un fantasma che risponda,
facendo eco agli ultimi lamenti
d’una sirena in corsa nella notte.
Ischia ad ottobre
Una volta qui ribolliva un vulcano.
Poi fu un pellicano a bucarsi il petto.
Non lontano viveva Virgilio,
Auden ci beveva vino a fiumi.
Oggi lo stucco si scrosta dai palazzi,
prezzi e conti non son più quelli di una volta.
Ma io faccio quadrare in qualche modo
i miei versi svolgendo un'appannata "r".
Il pescatore s'inoltra nell'oltremarino
via dalle coperte stese sul balcone,
l'autunno sferza i colli con un mare diverso
da quello che la deserta spiaggia frusta.
Dalla balaustra mia moglie e la mia bambina
guardano lontano, adocchiando il pianoforte
di una vela o un pallone aerostatico -
colpo smorzato di campana.
All'isola come variante del fato,
impensabile come bilancio del cammino,
si addice soltanto lo scirocco. Ma
neppure a noi e' vietato
sbattere le imposte. E la corrente
che sparpaglia le carte è il segno
- sbrigati a voltarti! -
che qui non siamo soli.
Il guscio tenuto insieme con la calce,
che salva dall'impeto della fronte,
del sale, del vetusto martelletto,
rivela tre tuorli all'imbrunire.
Attorcendo i monogrammi delle buganvillee,
con il loro alfabeto mascherando
la sua vergogna, l'esigua terra
si vendica dello spazio con il verde.
Persone - poche, e sentendo "tu"
si induriscono i tratti, quasi
il linguaggio, a guisa di lente,
separasse il paesaggio dai volti.
E più volentieri che verso il continente,
nel sentire "a casa" la mano tende il dito
in direzione della montagna
dove crollano e crescono mondi.
Siamo qui in tre, e scommetto
che quanto vediamo insieme è tre volte
più senza fissa dimora e più azzurro
di ciò a cui Enea guardava.
1993
Procida
Baia sperduta; non più di venti barche a vela.
Reti, parenti dei lenzuoli, stese ad asciugare.
Tramonto. I vecchi guardano la partita al bar.
La cala azzurra prova a farsi turchina.
Un gabbiano artiglia l'orizzonte prima
che si rapprenda. Dopo le otto è deserto
il lungomare. Il blu irrompe nel confine
oltre il quale prende fuoco una stella.