UMBERTO SABA
La foglia
A mia figlia
Dopo la tristezza
Città vecchia
La malinconia
Da quando
Notte d'estate
Ulisse
Felicità
Caffé Tergeste
L'inverno
Sera di febbraio
Parole come stelle
Donna
UMBERTO SABA - La foglia
Io sono come quella foglia - guarda -
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.
Negami dunque. Non ne sia rattristata
la bella età che a un'ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s'attarda.
Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.
UMBERTO SABA - A mia figlia
Mio tenero germoglio,
che non amo perché sulla mia pianta
sei rifiorita, ma perché sei tanto
debole e amore ti ha concesso a me;
o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza; e non più che per ogni
altro germoglio è il mio amore per te.
La mia vita, mia cara
bambina, è l’erta solitaria, l’erta chiusa
dal muricciolo,
dove al tramonto solo
siedo, a celati miei pensieri in vista.
Se tu non vivi a quei pensieri in cima,
pur nel tuo mondo li fai divagare;
e mi piace da presso riguardare
la tua conquista.
Ti conquisti la casa a poco a poco,
e il cuore della tua selvaggia mamma.
Come la vedi, di gioia s’infiamma
la tua guancia ed a lei corri dal gioco.
Ti accoglie in grembo un sì bella e pia
Mamma, e ti gode. E il vecchio amore oblia.
UMBERTO SABA - Dopo la tristezza
Questo pane ha il sapore d'un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov'è più abbandonato e ingombro il porto.
E della birra mi godo l'amaro,
seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.
L'anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell'antica sera
guarda un pilota con la moglie incinta;
e un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno
fanciullesco, che ho fatto or son vent'anni.
E chi mi avrebbe detto la mia vita
così bella, con tanti dolci affanni,
e tanta beatitudine romita!
Città vecchia
Spesso, per ritornare alla mia casa,
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
(Da Trieste e una donna) 1910-12
UMBERTO SABA - La Malinconia
Malinconia
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente
che mi divaghi.
Niente, o una sola
casa. Figliola,
quella per me saresti.
S'apre una porta; in tue succinte vesti
entri, e mi smaghi.
Piccola tanto,
fugace incanto
di primavera. I biondi
riccioli molti nel berretto ascondi,
altri ne onesti.
Ma giovinezza,
torbida ebbrezza,
passa, passa l'amore.
Restan sì tristi nel dolente cuore,
presentimenti.
Malinconia,
la vita mia
amò lieta una cosa,
sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
ch'altro non spero.
Quando non s'ama
più, non si chiama
lei la liberatrice;
e nel dolore non fa più felice
il suo pensiero.
Io non sapevo
questo; ora bevo
l'ultimo sorso amaro
dell'esperienza. Oh quanto è mai più caro
il pensier della morte,
al giovanetto,
che a un primo affetto
cangia colore e trema.
Non ama il vecchio la tomba: suprema
crudeltà della sorte.
UMBERTO SABA - Da quando
Da quando la mia bocca è quasi muta
amo le vite che quasi non parlano.
Un albero; ed appena – sosta dove
io sosto, la mia via riprende lieto –
il docile animale che mi segue.
Al giogo che gli è imposto si rassegna.
Una supplice occhiata, al più, mi manda.
Eterne verità, tacendo, insegna.
UMBERTO SABA - Ulisse
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava, scivolosi al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; ma al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
UMBERTO SABA - Felicità
La giovinezza cupida di pesi
porge spontanea al carico le spalle.
Non regge. Piange di malinconia.
Vagabondaggio, evasione, poesia,
cari prodigi sul tardi! Sul tardi
l'aria si affina ed i passi si fanno
leggeri.
Oggi è il meglio di ieri,
se non è ancora la felicità.
Assumeremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo alcuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.
UMBERTO SABA - Caffé Tergeste
Caffè Tergeste, ai tuoi tavoli bianchi
ripete l’ubbriaco il suo delirio;
ed io ci scrivo i miei piu allegri canti.
Caffè di ladri, di baldracche covo,
io soffersi ai tuoi tavoli il martirio,
lo soffersi a formarmi un cuore nuovo.
Pensavo: Quando bene avrò goduto
la morte, il nulla che in lei mi predico,
che mi ripagherà d’esser vissuto?
Di vantarmi magnanimo non oso;
ma, se il nascere è un fallo, io al mio nemico
sarei, per maggior colpa, più pietoso.
Caffè di plebe, dove un dì celavo
la mia faccia, con gioia oggi ti guardo.
E tu concili l’ítalo e lo slavo,
Narciso al fonte (Mediterranee)
Quando giunse Narciso al suo destino
- dai pastori deserto e dalle greggi
nell'ombra di un boschetto azzurro fonte -
subito si chinò sullo specchiante.
Oh, bel volto adorabile!
Le frondi
importune scostò, cercò la bocca
che cercava la sua viva anelante.
Il bacio che gli rese era di gelo.
Sbigottì. Ritornò al suo cieco errore.
Perché caro agli dei si mutò in fiore
bianco sulla sua tomba.
UMBERTO SABA - Sera di febbraio
Spunta la luna.
Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s'allaccia;
sbanda a povere mète.
Ed è il pensiero
Della morte che, in fine, aiuta a vivere.
Parole come stelle
Fra le tue pietre e le tue braccia
faccio villeggiatura.
Mi riposo in Piazza del Duomo.
Invece di stelle
ogni sera si accendono parole.
UMBERTO SABA
Neve che turbini in alto e avvolgi
le cose di un tacito manto,
neve che cadi dall'alto e noi copri,
coprici ancora, all'infinito: imbianca
la città con le case,con le chiese,
il porto con le navi,
le distese dei prati.....
Amai
Amai trite parole che non uno osava.
M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica.
Con paura il cuore le si accosta, che più non l'abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
Quasi una moralità
Più non mi temono i passeri. Vanno
vengono alla finestra indifferenti
al mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano il miglio e la scagliuola: dono
spanto da un prodigo affine, accresciuto
dalla mia mano. Ed io li guardo muto
(per tema non si pentano) e mi pare
(vero o illusione non importa) leggere
nei neri occhietti, se coi miei s'incontrano,
quasi una gratitudine.
Fanciullo,
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e pia se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto e molto errato,
che ancora esiste la Grazia e che il mondo,
tutto il mondo ha bisogno di amicizia.
E' come a un uomo battuto dal vento,
accecato di neve - intorno pinge
un inferno polare la città-
l'aprirsi, lungo il muro, d'una porta.
Entra. Ritrova la bontà non morta,
una dolcezza di un caldo angolo. Un nome
posa dimenticato, un bacio sopra
ilari volti che più non vedeva
che oscuri in sogni minacciosi.
Torna
egli alla strada, anche la strada è un'altra.
Il tempo al bello si è rimesso, i ghiacci
spezzano mani operose, il celeste
rispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa
che ogni estremo di mali un bene annuncia.
UMBERTO SABA - UN RICORDO
Non dormo. Vedo una strada, un boschetto,
che sul mio cuore come un’ansia preme;
dove si andava, per star soli e insieme,
io e un altro ragazzetto.
Era la Pasqua; i riti lunghi e strani
dei vecchi. E se non mi volesse bene
pensavo e non venisse più domani?
E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo verso la sera;
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore;
il primo; e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
storie di, credo, quindici anni fa?
UMBERTO SABA - PASSIONI
Sono fatte di lacrime e di sangue
e d'altro ancora. Il cuore
batte a sinistra.
Il garzone e la carriola
È bene ritrovare in noi gli amori
perduti, conciliare in noi l'offesa;
ma se la vita all'interno ti pesa
tu la porti al di fuori.
Spalanchi le finestre o scendi tu
tra la folla: vedrai che basta poco
a rallegrarti: un animale, un gioco
o, vestito di blu,
un garzone con una carriola,
che a gran voce si tien la strada aperta,
e se appena in discesa trova un'erta
non corre più, ma vola.
La gente che per via a quell'ora è tanta
non tace, dopo che indietro si tira.
Egli più grande fa il fracasso e l'ira,
più si dimena e canta.
L'arboscello
Oggi il tempo è di pioggia.
Sembra il giorno una sera,
sembra la primavera
un autunno, ed un gran vento devasta
l’arboscello, che sia, e non pare, saldo;
par tra le piante un giovanotto, alto
troppo per la sua troppo verde età.
Tu lo guardi: hai pietà
Forse di tutti quei candidi fiori
che la bora gli toglie e sono frutta,
sono dolci conserve
per l’inverno i suoi fiori, che tra l’erbe
cadono; e se ne duole la tua vasta
maternità.
Dico al mio cuore, intanto che t’aspetto:
scordala, che sarà cosa gentile.
Ti vedo, e generoso in uno e vile,
a te m’affretto.
So che per quanto alla mia vita hai tolto,
e per te stessa dovrei odiarti.
Ma poi altro che un bacio non so darti
quando t’ascolto.
Quando t’ascolto parlarmi d’amore
sento che il male ti lasciava intatta;
sento che la tua voce amara è fatta
per il mio cuore.
Meriggio d'Estate
Silenzio!Hanno chiuso le verdi
persiane delle case.
Non vogliono essere invase.
Troppe le fiamme
della tua gloria,o sole!
Bisbigliano appena
gli uccelli,poi tacciono,vinti
dal sonno. Sembrano estinti
gli uomini,tanto è ora pace
e silenzio... Quand'ecco da tutti
gli alberi un suono s'accorda,
un sibilo lungo che assorda,
Sesta fuga (Canto a 3 voci)
1)Io non so più dolce cosa
dell'amore in giovinezza,
di due amanti in lieta ebbrezza,
di cui l'un nell'altro muore.
Io non so più gran dolore
ch'esser privo di quel bene,
e non porto altre catene
di due braccia ignude e bianche,
che se giù cadono stanche
è per poco, è a breva pace.
Poi la sua bocca che tace,
tutto in lei mi dice: ancora.
Spunta in ciel la rosea aurora,
ed il sonno ella ne apporta,
che a goder ci riconforta
della grande unica cosa.
2)Io non so più dolce cosa
dell'amore. Ma più scaltro,
ma di te più ardente, è un altro
che a soffrir nato mi sento.
Non la gioia, ma il tormento
dell'amore è il mio diletto;
me lo tengo chiuso in petto,
la sua immagine in me vario.
E cammino solitario
per i monti e per i prati,
con negli occhi impriginati
cari volti, gesti arcani.
Mi dilungo dagli umani:
profanar temo repente
quella ch'è nella mia mente
una tanto dolce cosa.
3)Io non so più dolce cosa
di pensarmi. Il puro amore
di cui ardo, dal mio cuore
nasce, e tutto a lui ritorna.
Quando annotta e quando aggiorna
io mi beo d'esser me stessa.
E' la cura mia indefessa
adornarmi per me sola.
La mia voce in alto vola,
scende al basso; il male e il bene
tutto è puro quando viene
all'azzurra mia pupilla,
come a un'acqua che tranquilla,
coi colori della sera,
specchia i monti, la riviera,
i viventi, ogni lor cosa.
1) Io non so più dolce cosa
dell'ascosa mia dimora,
in cui tutto annuncia un'ora,
in cui tutto la ricorda.
Dentro come tomba è sorda,
non le giungono rumori;
vi riflettono splendori
del dì vetri pinti ad arte.
D'oriente in lei v'è parte
per i miei lunghi riposi;
per i giochi gaudiosi
ampio ha il talamo e profondo.
Tutto il bello che nel mondo
prende alletta gli occhi tuoi,
là raccolto veder puoi
per la grande unica cosa.
2)Io non so più dolce cosa
dell'ascosa mia stanzetta,
sempre in vista a me diletta,
nuda come una prigione.
Poche cose vi son, buone
sol per me, per la mia vita.
I rumori della vita
giungon sì, ma di lontano.
Tutto quanto al mondo è vano,
che mal dura e mal s'innova,
spazio amico in lei ritrova
qual pulviscolo in un ciglio.
Là in un canto è il mio giaciglio,
quasi il letto d'un guerriero.
Con me giace il mio pensiero,
la mia grande unica cosa.
3) Io non so più dolce cosa,
né dimora altra mi piace,
che vagar nella mia pace,
come nube in cielo vasto.
A me stessa, è vero, basto,
non mi punge lalcuna brama;
pure amar posso chi m'ama,
e investirlo del mio fuoco.
voi m'udite ora; tra poco
chi sarà da me beato?
Forse un misero cascato
fino al fondo giù dell'onta.
Una grazia piena e pronta
gli fa impeto nel cuore;
trasfigura il suo dolore
nella grande unica cosa.
1)Io non so più dolce cosa
dell'amore in giovinezza;
pur v'ha, dicono, un'ebbrezza
che sta sopra anche di quella.
Non per me che in una bella
forma appago ogni desio,
ma per chi si sente a un dio
nel volere assomigliante.
Non fanciulla, non amante
-vivo grappolo autunnale-
la dolcezza per lui vale
di piegarti al suo destino.
E si taglia egli un cammino
tra gli ignavi e tra gli ostili.
Pei tuoi sogni giovanili
io non so più grande cosa.
2)Io non so più dolce cosa
di chi al cenno altrui soggetto,
sente d'essere un eletto
all'interna libertà.
E non ha felicità
che non venga a lui da questo.
Non ti inganni il suo esser mesto,
il suo aspetto non t'inganni.
Fra i tormenti, negli affanni
propri solo alla sua sorte,
solo a lui s'apron le porte
d'un occulto paradiso.
Là uccisor non v'è, né ucciso,
e non torbida demenza.
Dalla mesta adolescenza
Io non so più lieta cosa.
3)Io non so più lieta cosa
del sereno in cui mi godo.
Pure quando parlar v'odo,
e parlando vaneggiare,
la mia pace vorrei dare
per la vostra, oh lo potessi!
Ma dai limiti concessi
non c'è dato, o cari, uscire.
Folle amore, orgoglio d'ire,
paradiso me non tocca.
Se baciarmi sulla bocca
fosse lecito a un mortale,
proverebbe un senso, quale
della morte è forse il gelo:
tanto azzurro è in me di cielo,
tanto in me brucia l'amore.
1)Io non so più caldo amore
dell'amor di questa terra,
quando tutta al cor la serra
nell'abbraccio il suo fedele.
Come pomo sa di miele
e d'acerbo al mio palato;
se un amaro v'è mischiato
è perché mai ma ne sazi.
Se i tormenti, se gli strazi
che tu esalti, mi prepara,
quale ho mai cosa più cara
della sola che possiedo?
Ma mi guardo intorno, e vedo
altro ancor che strazio e lutto
sulla terra, dove al frutto
morde ognun del caldo amore.
2) Io non so più cieco amore
dell'amore della vita.
Nella mia stanza romita,
passeggiando solitario,
da un delirio unico e vario
tutta notte posseduto,
quante, quante volte ho avuto
il pensiero io di lasciarla!
Te felice se puoi darla
del tuo amor nei rischi avvolto;
più felice ancora, e molto,
chi a gettarla si fa un vanto;
chi la getta come un guanto
al destino che disprezza.
Ah, perché la giovinezza
della morte ha in se l'amore?
3) Io non so di questo amore,
io non so di questa morte:
immutabile è la sorte
conceduta alla mia gioia.
Ch'altri viva, ch'altri muoia
il pensiero in me non nacque.
A crearmi si compiacque
forse un'anima in un sogno.
Forse un'anima in un sogno
così bella mi creava,
con la mente al bene schiava,
con l'azzurra mia pupilla,
come un'acqua che tranquilla
tutto specchia e nulla offende.
Ah, perché tra voi mi prende
desiderio d'altra cosa?
1) Io non so più dolce cosa
del presente. Ai dì remoti
mi smarrivo anch'io in ignoti
desideri, ora non più.
Voglio il bene, e nulla più,
di cui possa uomo godere.
Belle forme amo vedere,
possederle amo più ancora.
La bellezza m'innamora,
e la grazia m'incatena;
e non soffro un'altra pena,
se non è di ciò l'assenza.
Alla mesta adolescenza
ho lasciato i sogni vani.
Esser uomo tra gli umani,
io non so più dolce cosa.
2) Io non so più dolce cosa,
né più amara a chi n'è privo.
Nel presente appena vivo,
vedo più ch'altri non vede.
Beni a cui nessuno crede
mi sorridono al pensiero.
Tutto il mondo un cimitero,
senza quelli mi diventa.
Tutta in me la gioia è spenta,
sana gioia in cui t'esalti.
Troppo bassi son, tropp'alti
forse i sogni che altrui taccio?
Ahi, sognando io mi disfaccio;
notti ho insonni e giorni vani.
Esser uomo tra gli umani
no, non v'è più dolce cosa.
3) Io non so più dolce cosa
che potermi in voi mutare,
solo un'ora; ma tornare
potrei dopo alla mia pace?
Sarei dopo ancor capace
di adornarmi per me sola?
La delizia che s'invola
chi sa mai se si riacquista?
Io che vedo e non son vista,
se soffrir potessi il morso
della brama, forse il corso
qui più a lungo avrei fermato.
Forse uno avrebbe uno ascoltato
sul mio labbro accenti vani:
ch'esser uomo tra gli umani
parve a me una dolce cosa.
1) Io non so più dolce cosa
della dolce giovinezza.
Fino il vento l'accarezza
sulla gota, o poco punge.
Se la gloria a lei s'aggiunge
sommo è il bene che in te rechi.
A me basta udirne gli echi,
berne a lungo le parole.
Giovinezza in me si duole
solo d'esser fuggitiva.
Altra pena non ho viva,
fuori questa, nel mio cuore.
E obliarla dell'amore
anche appresi nell'incanto.
Rattristare in te di pianto
come puoi sì breve cosa?
2) Io non so più breve cosa
della dolce giovinezza.
Di me forse più l'apprezza
chi è già giunto alla sua sera.
Della gloria menzognera
non ascolto io la lusinga.
Bella ogn'altro se la finga,
io il suo fascino ho in me estinto.
Amo sol chi in ceppi avvinto,
nell'orror d'una segreta,
può aver l'anima più lieta
di chi a sangue lo percuote.
Bagna il pianto le sue gote,
cresce in cor la strana ebbrezza.
Per lui prova giovinezza
la sua grazia anche ai supplizi.
3) Non mi nego ai tuoi supplizi,
non ho in odio i tuoi piaceri;
non so come i miei pensieri
si smarriscono nei vostri.
Per la fede che mi mostri,
tu a una gioia, e tu a un dolore,
se mortal fosse il mio cuore
di lui quanto vorrei darvi!
Pur son lieta di mirarvi,
e l'udirvi anche m'è caro.
Per voi provo un dono raro,
del diamante la virtù;
che in bei gialli, in rossi, in blu,
quando a un raggio di sol brilla,
lo splendor nativo immilla;
e non so più dolce cosa.
1) Io non so più dolce cosa
di ascoltarti, chiara voce.
Ma se nulla a te non nuoce,
ecco, esaudi quanto chiedo.
Te che ascolto e che non vedo
sei, celata, una fanciulla?
Se tal sei, dalla tua culla
d'aria scendi al mio richiamo.
La tua faccia veder bramo,
senza lei m'è il giorno oscuro.
Tanto bella io ti figuro
come dolce a udirti sei.
La tua bocca io bacerei,
tenerezza che tu ignori.
Uno fare di due ardori,
io non so più dolce cosa.
2) Io non so più dolce cosa,
né più vana, amico errante.
Parla un angelo, e un amante
in lui pinge il tuo desio.
Oh t'inchina invece al mio,
che di solo udirti ho sete.
D'onde vieni, a quali mete
sei rivolta, io dir ti prego.
All'abbraccio te non lego
d'un mortale, aereo fuoco.
Ma dimora ancora un poco
qui con noi, fra terra e cielo.
Forse invan mirarti anelo?
Non hai corpo, non hai viso;
non sei forse che un sorriso.
Parla, amica, oh parla ancora!
3) Parla tu, gentile, ancora,
se d'udirmi ancora agogni.
Non m'hai forse nei tuoi sogni
prima d'ora mai raggiunta?
Quando in ciel l'aurora spunta?
Nella veglia che beata
chiama questi, e n'ha celata
la sua nausea egli, il disgusto.
Nata son dal suo disgusto,
nata son dal tuo tormento:
tanto viva esser mi sento
quanto amate il viver mio.
Ma se voi tacete, anch'io,
ecco, in aere mi risolvo;
con voi libera m'evolvo,
muoio libera con voi.