Nel vero uomo è nascosto un bambino che vuole giocare
FREDERICK NIETZSCHE
Il gioco come manifestazione interiore
Una grande manifestazioni della personalità è il gioco, che trae origine da un bisogno interiore. Esso comprende le diverse attività creative grazie alle quali il bambino afferma se stesso e le sue esigenze, si autorealizza e si dispone a ricercare, agire, muoversi, ad operare sugli oggetti che lo circondano come se fossero animati, a inventare quelle cose che non sono disponibili e che vorrebbe possedere, a creare ed esprimersi liberamente, a rivestire i ruoli che giudica più interessanti.
Il gioco dà al bambino fiducia nelle sue possibilità, lo mette in condizione di modificare a suo piacimento la realtà in cui è immerso, realizzando desideri impossibili, compensando le frustrazioni, scaricando le ansie e liberandosi dalle angosce.
Il gioco come sublimazione dell’aggressività consente di dirottare gli impulsi distruttivi verso attività socialmente accettabili.
LO SVILUPPO DELL’ATTIVITÀ LUDICA
I primi due anni di vita
Nei primi due anni di vita, le principali forme di gioco si manifestano nella gioia di conquistare l’ambiente circostante, nella possibilità di scoprirne le caratteristiche e di utilizzarle per soddisfare i propri bisogni: il bambino si diverte a lasciar cadere continuamente un oggetto per la gioia di percepirne il rumore, ripete di continuo i suoni o le parole pronunciate dagli altri.
A partire dai due anni, scopre e giudica il proprio ambiente di vita attraverso i suoi giochi di fantasia. Giocando a «far finta» di essere un adulto o di rivestire un certo ruolo (ad esempio il dottore), egli richiama alla mente avvenimenti e situazioni vissute precedentemente e cerca di riprodurle adattandole alle esigenze emotive del momento. Il gioco di pura imitazione si trasforma in gioco simbolico: il bambino non riproduce la realtà così come la percepisce, ma la assimila e le attribuisce caratteristiche personali.
Il gioco percettivo-motorio
Appena il bambino si muove, calcia e afferra gli oggetti più vicini per portarli alla bocca, il suo spazio potrà arricchirsi di moltissimi oggetti, dal cui contatto il bambino trarrà preziose esperienze. All’inizio il bambino manipola e succhia gli oggetti per scoprire “di che cosa” sono fatti: il bambino esperisce gli oggetti prima di tutto portandoli alla bocca (fase orale), odorandoli, manipolandoli e infine rompendoli, per il piacere di sentire il rumore che producono.
Attraverso queste esperienze nel bambino si avviano i processi mentali percettivi e motori necessari allo sviluppo del suo pensiero. Successivamente il gioco del “nascondino” gli consentirà di pervenire all’acquisizione della “permanenza dell’oggetto” (Piaget).
L’imitazione differita
Molto presto l’attività, non più soltanto percettiva, diventa “imitativa”. Si definisce “imitazione” ogni tentativo del bambino di riformulare per conto proprio movimenti ed espressioni compiute da altri: dopo i 18 mesi, si ha il manifestarsi di un’imitazione differita nel tempo. Il bambino diventa capace di ripetere anche dopo ore o giorni un movimento da cui è stato attratto o incuriosito.
Il gioco simbolico
L’attività rappresentativa del bambino è favorita da un diffuso tipo di gioco infantile, quello a carattere simbolico. Mentre nell’attività percettivo-motoria il bambino studia l’oggetto di per sé, la sua consistenza, forma e colore, l’uso, nell’attività simbolica le proprietà dell’oggetto sono state ormai scoperte, ma questo comincia ad essere manipolato in modo diverso: non rappresenta più solo se stesso, ma qualcosa di più confacente al momentaneo desiderio del bambino. Un pezzetto di legno può rappresentare una barca, una penna etc.; un pupazzo può simboleggiare un fratellino e così via; il contenuto del ricordo da cui il bambino prende le mosse (scena familiare) viene analizzato e trasposto nel momento attuale di gioco.
L’attività ludica aiuta il bambino ad affrontare il mondo degli adulti senza rimanere preda dei pregiudizi, a superare i timori e l’angoscia dell’ignoto.
Il gioco simbolico consente una limitata possibilità di espressione di impulsi distruttivi (sublimazione dell’aggressività) e di tendenze normalmente inibite.
Imitare l’adulto, farne la caricatura, aiuta a sdrammatizzare un rapporto difficile: nel gioco si può avere la “rivincita” simbolica su qualcuno che non si riesce a sconfiggere nella realtà.
A volte è sufficiente cercare in un pupazzetto un sostituto della persona temuta e creare delle situazioni in cui il bambino non si lascia sopraffare dalle emozioni, ma può superare le difficoltà. Il gioco assume così un valore catartico (liberazione dagli stati angosciosi), contribuendo all’organizzazione della vita emotiva ed affettiva.
Nel gioco simbolico il bambino non riproduce la realtà come la percepisce, ma le attribuisce caratteristiche personali. L’oggetto perde i suoi caratteri universali e diviene il simbolo di qualcos’altro (ad esempio una sedia rovesciata può trasformarsi in un trenino).
Secondo Anna Oliverio Ferraris “è il piacere del far finta di...: il bambino assume un ruolo che gli consente di entrare nel mondo degli adulti, scegliendolo tra quelli che vede nella vita reale e nella finzione della Tv”.
Il gioco come attività conoscitiva
Mediante il gioco il bambino prende coscienza della realtà che lo circonda e la modifica secondo i propri desideri. L’attività ludica avvia il bambino alla conoscenza di ciò che accade intorno a lui e stimola lo sviluppo delle funzioni cognitive: con il gioco il bambino adatta le situazioni ai suoi scopi, ne analizza le caratteristiche e stabilisce le relazioni tra vari elementi della realtà.
Fino ai tre anni il gioco ha la funzione importantissima di far sperimentare al bambino la qualità e l’uso degli oggetti che lo circondano, di farlo allenare ad un sempre più perfezionato rapporto con essi. Un bambino gioca con la stessa seria concentrazione con cui un adulto esegue un duro lavoro: giocando si pone in rapporto con il mondo esterno.
Il gioco avvia alle attività mentali complesse e favorisce lo sviluppo delle funzioni simboliche, arricchisce l’immaginazione, stimola la creatività e il pensiero divergente, sviluppa la sintesi intellettiva e consente al bambino di realizzare la sua integrazione nell’ambiente.
Il bambino di cinque o sei anni si diverte non soltanto a sentir raccontare le favole, ma soprattutto a inventarle egli stesso, immaginandosi in un mondo fantastico, costruito sulla base dei suoi desideri. A volte il bambino si immerge a tal punto nelle storie che ne inventa delle altre, in modo da continuare il suo gioco anche con gli adulti, tentando di coinvolgerli nel proprio mondo fantastico. Spesso i genitori non si rendono conto dell’esigenza immaginativa dei bambini e scambiano per menzogna i loro racconti immaginari.
Il gioco come socializzazione
Ogni forma di attività ludica riveste un ruolo rassicurante e di compensazione della realtà. Il gioco è necessario per crescere, conoscere e socializzare,
Dai tre ai sei anni il gioco di gruppo è caratterizzato dall’incoerenza e dalla mancanza di regole: ogni bambino cerca di realizzare nel gioco le sue esigenze, vuole emergere a spese degli altri e non riesce a tollerare le rinunce. L’acquisizione di un ruolo (ciò che ciascuno deve fare all’interno del gruppo) è il primo passo verso l’interazione. Dopo i sei anni il fanciullo comincia a giocare in gruppo e ad interagire con gli altri. Il gioco di gruppo si fonda sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti.
L’accettazione delle regole, che costituiscono un sistema di controllo sociale, richiedono il superamento dell’egocentrismo e la capacità di valutare la realtà da punti di vista diversi dal proprio. Le regole costituiscono una forma di difesa dei diritti dei più deboli, sempre alla mercé dei bambini più prepotenti. La difesa dei diritti e dei doveri si consolida intorno ai dieci anni, quando compaiono i primi giochi di squadra.
A partire dalla preadolescenza viene accettato il rispetto rigoroso della regola e viene tollerata l’eventuale punizione affinché tutti vengano giudicati allo stesso modo. L’accettazione delle regole richiede il superamento dell’egocentrismo infantile. Esse sono astratte e possono essere comprese soltanto a partire dagli undici anni circa, età in cui il ragazzo è in grado di sganciarsi dal mondo concreto, di effettuare delle ipotesi riuscendo a valutare la realtà da punti di vista diversi dal proprio e ad immedesimarsi negli altri. Il ragazzo accetta la sanzione nel gioco come garanzia e anche come fattore di sicurezza: in caso di successo, la regola premierebbe lui anziché il compagno.
Giocattolo ed oggetto transizionale
Il giocattolo non va in alcun modo confuso con il goco, di cui costituisce soltanto uno strumento, utile per l'interazione e la mediazione con la realtà.
I giocattoli sono “oggetti transizionali”. Verso i dodici mesi il bambino, per superare il dispiacere del distacco, sia quando la madre si allontana temporaneamente, sia quando sta per addormentarsi, ricorre ad un oggetto sostitutivo, che può essere un pupazzetto di peluche, una coperta o anche uno straccetto, morbido come il corpo della madre o i suoi vestiti. Questi oggetti hanno la funzione di sostituti materni, che offrono al bambino una presenza rassicurante a cui aggrapparsi quando la madre è assente o non è disponibile. Essi sono chiamati oggetti transizionali e costituiscono una sovrapposizione fra la realtà esterna del bambino e la sua realtà personale. La fase transizionale, generalmente, viene superata intorno al secondo anno di vita. Alcuni bambini, però, continuano a ricorrere all’oggetto sostitutivo nella fanciullezza e, in rari casi, nell’adolescenza e nell’età adulta.
Il giocattolo, in quanto semplice strumento del bambino nel gioco, deve sollecitare in lui la curiosità e rispondere al suo bisogno di conoscenza e di esplorazione della realtà e a stimolare la sua creatività senza limitarla. Non deve essere considerato come un finalità, come il gioco in se stesso. Ciò va tenuto presente soprattutto in famiglia: nella scelta del giocatolo, bisogna scegliere il mezzo in grado di stimolare le capacità psicofisiche del bambino, non un sostituto che ne limiti l'attività.
Il gioco di gruppo
Nell’età che va dai tre ai sei anni il gioco di gruppo è caratterizzato dall’incoerenza e dalla mancanza di regole: ogni bambino cerca di realizzare nel gioco le sue esigenze, vuole emergere a spese degli altri e non riesce a tollerare le rinunce. L’acquisizione di un ruolo (ossia la determinazione di ciò che ciascuno deve fare all’interno del gruppo) è il primo passo verso l’interazione.
Il gioco di gruppo nella fanciullezza richiede il rispetto di alcune regole e la rinuncia ad alcune esigenze a favore della collettività. L’acquisizione di un ruolo (ossia la determinazione di ciò che ciascuno deve fare all’interno del gruppo) è il primo passo verso l’interazione. Il ruolo del leader è quello più ambito dalla maggior parte dei bambini: essi accettano di far la parte dei gregari soltanto in vista di un futuro più favorevole per loro. Il desiderio di essere un capo induce il bambino ad accettare le regole imposte dai compagni, in attesa di avere, a sua volta, la possibilità di imporre le regole che preferisce.
Avviamento all’attività sportiva nella scuola primaria.
Nonostante l’attività sportiva presenti molteplici effetti positivi su tutta la persona, essa deve essere proposta con cautela ai bambini della scuola primaria, tenendo conto delle caratteristiche auxologiche proprie di quest’età.
Sono da escludere gli sport che comportano un impegno statico (ad esempio il sollevamento pesi), mentre saranno preferiti gli sport dinamici (pallavolo, calcio, atletica leggera, nuoto).
Si privilegeranno le attività sportive che impegnano tutto il corpo (ad esempio la pallavolo) a quelle che coinvolgono maggiormente un solo lato del corpo (come il tennis).
Nel primo ciclo della scuola primaria è positivo ricorrere ai giochi di squadra per favorire la socializzazione del bambino nel quadro di un sano sviluppo motorio. È necessario però organizzare il gioco in modo da non imporre regole superflue e da semplificare al massimo le sequenze di gioco, lasciandogli la libertà di apprezzare tutto il piacere del movimento senza i dispiaceri legati alla memorizzazione di schemi motori complessi e la necessità di sottoporsi a rinunce e limitazioni.
Nel primo ciclo della scuola primaria l’avviamento alle attività sportive comprenderà giochi di squadra caratterizzati da semplici regole come staffetta e tiro alla fune.
Nel secondo ciclo, si darà maggior spazio ad alcuni giochi sportivi di squadra (calcetto, minivolley).
Si eviterà in tutti i casi ogni forma di attività agonistica.
Il gioco sportivo, dal punto di vista educativo, deve preparare il fanciullo ai ruoli che dovrà assumere nella vita sociale. Pertanto, sarà cura dell’insegnante stabilire dei ruoli a rotazione.
Nel gioco di gruppo il fanciullo si rende conto di dover uniformare le regole di gioco, che rispondono all’esigenza di svolgere le proprie attività secondo schemi precisi e in perfetta rispondenza del ruolo che si ricopre. Le regole costituiscono anche una forma di difesa dei diritti dei più deboli, sempre alla mercé dei bambini più prepotenti. Il gioco di gruppo si fonda sul rispetto delle esigenze individuali, mediante un complesso intreccio di diritti e doveri. Le regole permettono di controllare le attività di tutti e garantiscono un’equità nelle valutazioni.
È importante far sì che i giochi di squadra trasformino il bisogno naturale dell’alunno di stare insieme da semplice esigenza affettiva in un profondo senso del gruppo, nel sentimento di appartenenza a un qualcosa che appartiene a tutti. Solo in questo modo egli sarà spinto a rinunciare alla soddisfazione dei suoi bisogni a favore delle superiori esigenze del gruppo.
A partire dalla preadolescenza la regola non diventa semplicemente qualcosa da imparare, ma costituisce il fondamento dell'agire sociale: si accetta la propria sconfitta perché si è certi che, con uno sforzo adeguato, si riuscirà a vincere. Il confronto sociale è ora reso possibile in molte occasioni di gioco, in cui i preadolescenti accettano e rispettano la regola. In alcuni casi ne pretendono l’applicazione rigorosa e coerente, anche quando la propria sconfitta è palese. Il ragazzo, infatti, accetta la sanzione nel gioco come garanzia e anche come fattore di sicurezza: in caso di successo, la regola premierebbe lui anziché il compagno. Pertanto il gioco sportivo può essere proposto soltanto a partire dalla scuola media inferiore.
Nell'adolescenza, infatti, il confronto sociale è reso possibile dallo sviluppo del pensiero formale, che consente di considerare più punti di vista in interazione fra loro.
Giochi di squadra
I giochi sportivi di squadra (pallavolo, calcio, pallacanestro) sono sottoposti a regole specifiche e sono controllati da un arbitraggio.
A questi sport si attribuiscono importanti finalità educative: influenza positiva sullo sviluppo fisico e sulle grandi funzioni dell’organismo; sviluppo delle qualità motorie e azione positiva su tutta la personalità.
Essi, inoltre, sviluppano lo “spirito collettivo”, ossia la solidarietà fra i membri di una squadra e spingono i fanciulli a subordinare i propri interessi personali agli interessi collettivi, consentendo l’interiorizzazione delle regole.
Nello sport l’essere umano misura le proprie capacità, affrontando situazioni difficili ma risolvibili e superando condizioni di intensa emotività.
Il gioco sportivo nell’età adulta
Gli adulti tentano di mantenere la condizione giovanile e di conservare un corpo sempre giovane ricorrendo agli esercizi fisici e ai trattamenti estetici.
Il gioco nell’età adulta tende ad essere ricercato sempre meno per il piacere di svolgere un’attività ricreativa e sempre più per la possibilità di guadagno che offre (anche a livello simbolico). Il fine principale, se non l’unico, di quasi tutti i giochi adulti è la vittoria sull’avversario. Rispetto al bambino, per il quale il gioco costituisce l’attività principale, l’adulto può dedicare ad esso soltanto una piccola parte del suo tempo. Nell’adulto il ricorso al gioco presenta diverse motivazioni, dal tentativo di alleviare la tensione accumulata col lavoro, al bisogno di esprimersi liberamente; dall’esigenza di stabilire un punto d’incontro con altre persone (giochi di società), alla necessità di mettere alla prova le proprie capacità intellettive (scacchi, enigmistica).
La terapia di gioco
Poiché il bambino non è in grado, come l’adulto, di effettuare un’introspezione nella propria interiorità e di esternare le sue difficoltà al terapeuta, è necessario utilizzare delle tecniche in grado di favorire la libera espressione dei conflitti.
Nella terapia di gioco di Melanie Klein il terapeuta fornisce al bambino una serie di pupazzetti, chiedendogli di giocare “alla famiglia”. Il bambino finirà per rappresentare in esso la propria situazione familiare.
Il terapeuta interpreterà il gioco nel suo complesso, i ruoli attribuiti ai diversi personaggi e il ruolo rappresentato dal protagonista, esternerà tale rappresentazione al bambino per stimolare la liberazione dei sentimenti repressi. In base al rapporto di fiducia tra il bambino e l’analista, i disturbi iniziali si attenueranno progressivamente grazie alla loro graduale chiarificazione.
La Tecnica del Mondo di Margaret Lowenfeld consiste nell’offrire al bambino del materiale adatto al libero gioco: oggetti in miniatura (persone, animali, alberi, case etc.); sassi, sabbia, pezzi di legno etc. Al bambino viene chiesto di utilizzare liberamente tale materiale nel suo gioco. L’analista interpreterà i diversi raggruppamenti del materiale, la loro disposizione spaziale, la ricchezza espressiva, la dinamicità (gioco di movimento) oi staticità (scenario immobile e privo di vita) etc.
Il trattamento consiste nel commentare il gioco del bambino in modo da renderlo consapevole dei significati che egli attribuisce al suo mondo reale e ai suoi mondi fantastici, fobici o ossessivi.
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