La diversità non è un problema: il problema consiste nel non saper accettare la diversità.
Ogni persona ha diritti come tutti, ma conserva la propria originale individualità. Siamo uguali nei diritti, siamo diversi nella nostra individualità e personalità. Colui che chiamiamo "diverso" è come noi, è una persona sempre e comunque; non è un portatore di problemi. La società deve saper rispettare i diritti di tutti e di ciascuno, senza dimenticare mai i propri doveri. E' la società che fa della diversità un problema, relegandolo, etichettandolo ed emarginandolo.
Chiameremo disabilità l’handicap. Esso è, secondo Abignente, un evento drammatico non soltanto nella vita di un individuo, ma anche in quella dei gruppi di cui fa parte, soprattutto la famiglia. Per capire il bambino con disabilità bisogna comprendere e mettere allo scoperto le diverse dinamiche emotive e relazionali per stabilire gli interventi più opportuni.
L’handicap e le dinamiche familiari e sociali.
La vita di tutti è una continua crescita, ma quella dell’handicappato è cronica, con una crescita lenta, a volte tanto lenta da sembrare ferma.
La nascita di un bambino con disabilità costringe la famiglia ad operare modifiche interne ed esterne e ad affrontare l’emergenza. Questo evento non deve costituire semplicemente la fine delle aspettative sul suo futuro, ma richiede la riorganizzazione del presente e, soprattutto, flessibilità e disponibilità ad affrontare e superare, di volta in volta, tutte le difficoltà, anche se spesso ben maggiori di quelle previste.
La famiglia come sistema deve saper affrontare e gestire il dolore, la rabbia, il fallimento, prima di tutto accettandoli senza inutili sensi di colpa: non deve né negare né reprimere i problemi, ma accettarli con l'impegno di affrontarli, mettendo tutto il sistema sociale e la comunità nell'obbligo di partecipare a tale ricostruzione.
E' inutile andare alla ricerca di una causa, di un'origine dell'handicap, cercando una spiegazione nell’ereditarietà dell'uno o dell'altro dei genitori o di un loro parente, rinfacciandosi a vicenda la colpa e la disgrazia, cercando impietosamente di scavare nel passato ormai remoto.
Occorre affrontare i problemi prima di tutto all'interno del sistema familiare, senza dimenticare le altre problematiche, i rapporti con eventuali altri figli, mantenendo i rapporti coniugali senza trascurarsi l'un l'altro; soprattutto si deve evitare di proteggere il figlio più debole, impedendogli di crescere secondo i suoi ritmi e le se potenzialità, che sempre sono presenti in tutti gli esseri umani, certamente diverse da quelle di altri bambini, ma bisogna insistere e intervenire su quello che si può fare, senza trascurare alcuna opportunità.
Occorre pensare al futuro dei singoli membri, compresi quelli più deboli, e del gruppo familiare nel suo insieme, affrontandoli anche in vista dell’invecchiamento. e il “dopo”. I genitori che continuano a trattare il figlio disabile come se fosse un eterno bambino, è come se pensassero di non dover mai invecchiare.
È necessario anche mantenere e rinforzare i legami della famiglia con gli altri sistemi di tutta la comunità e della società. Tutti insieme dovranno elaborare un progetto, modificandolo ed arricchendolo di volta in volta, senza illusioni né rassegnazioni, mirando a risultati possibili, proponendo al membro più bisognoso un ambiente ricco di stimoli e affettivamente positivo, al cui interno devono pur esserci delle regole, come è necessario che sia nella vita e nella crescita di ogni essere umano. saper dire "no" non significa discriminare o non voler bene: significa saper rispettare le diverse linee del programma che è stato studiato ed elaborato con l'aiuto di amici, parenti ed esperti.
La diagnosi funzionale
“La diagnosi funzionale è la prima componente del piano educativo individualizzato: essa si pone come obiettivo fondamentale la conoscenza più estesa e approfondita possibile dell’alunno in difficoltà. Questa conoscenza deve però essere “funzionale”, appunto, e cioè utile alla realizzazione concreta e quotidiana di attività didattiche ed evolutive appropriate, significative ed efficaci. Proprio per questo la diagnosi funzionale deve risultare da un lavoro interdisciplinare, che veda la collaborazione degli insegnanti, degli operatori dell’Azienda ASL e dei familiari. La sua stesura non dovrebbe essere delegata allo psicologo, al neuropsichiatra o all’Unità multidisciplinare: queste professionalità dovranno certo fornire i loro contributi, preziosi in moltissimi casi, secondari in altri.
Il ruolo della scuola è centrale.
I bambini che presentano una disabilità di qualsiasi natura (sensoriale, motoria, intellettiva o psichica) devono ricevere un aiuto specializzato fin dal nido e dalla scuola dell'infanzia: più precoce è l’intervento, maggiori sono le possibilità di recupero. Naturalmente ogni trattamento deve essere programmato e individualizzato partendo dalla diagnosi funzionale, effettuata da un’équipe di specialisti.
Grazie alla collaborazione degli operatori delle équipes dell’ASL, verranno individuate le lacune e le carenze dell’allievo nello sviluppo senso-percettivo, psico-motorio, morfofunzionale, intellettivo, linguistico, emotivo-affettivo e sociale.
L’intervento a favore dei bambini disabili deve comprendere le seguenti fasi:
- inserimento scolastico;
- trattamento individualizzato;
- collaborazione scuola-famiglia;
- inserimento sociale.
L’inserimento scolastico
L’inserimento scolastico di un bambino disabile è un’operazione indubbiamente complessa, che va ben oltre il semplice inserimento fisico. Esiste tuttora una concreta difficoltà da parte degli insegnanti, i quali spesso non possiedono una sufficiente competenza nell’educazione dei bambini in difficoltà e incontrano difficoltà nell’organizzare l’azione didattica coordinando sia le esigenze individuali dei diversi alunni, sia la necessità di definire un programma valido per la classe.
Spesso il problema principale degli insegnanti si riduce ad una difficoltà di relazionarsi con il bambino e ad un disagio nell’accettare “la diversità” senza sentirsi coinvolti in prima persona. Il coinvolgimento in genere produce una penosa confusione e anche sensi di colpa.
Altre volte, anche se raramente, l’insegnante avverte, sia pure a livello inconscio, un rifiuto psicologico ad accettare nella classe soggetti disabili e nasconde la sua resistenza dietro motivazioni razionali quasi sempre plausibili (carenza delle strutture scolastiche, insufficiente esperienza personale, numero troppo alto di bambini nella classe, mancanza di operatori specializzati etc.).
La scolarizzazione del bambino handicappato prevede, invece, la partecipazione a tutte le attività didattiche e, soprattutto, un’azione didattica specifica, sapendo adattare il programma generale, di volta in volta, alle esigenze individuali. Coinvolgerlo nelle attività educative significa costruirgli un ruolo “vero” in ogni attività, in ogni esercizio e in ogni gioco, come lo vivono anche i suoi compagni.
I docenti devono saper organizzare la programmazione didattica ed educativa tenendo in considerazione sia le esigenze individuali che quelle del gruppo-classe.
Coinvolgere il disabile nelle attività educative significa costruirgli un ruolo in ogni attività, in ogni esercizio e in ogni gioco; naturalmente non deve trattarsi di un ruolo marginale, bensì di una funzione altrettanto importante di quella rivestita dagli altri compagni, compatibilmente con le sue difficoltà specifiche (ad esempio fare il capoclasse, tenere in ordine l’armadietto di classe, aiutare a fare l’appello ecc.
Il lavoro giornaliero potrebbe essere suddiviso in due tempi: quello del lavoro in comune (giochi, canto e musica, disegno, modellaggio, osservazione dell’ambiente, igiene, educazione psicomotoria) quello dell’attività in piccoli gruppi, permettendo a ciascun gruppetto di svolgere l’attività secondo il ritmo e il tempo che gli è proprio.
Il trattamento individualizzato
Il movimento e l’espressione corporea costituiscono la “terapia” elettiva nel trattamento dell’insufficiente mentale, in quanto si pone il corpo quale punto di riferimento permanente nel rapporto di comunicazione fra il soggetto e il mondo che lo circonda.
La ragione per cui la terapia motoria e corporea si rivela tanto efficace consiste nel fatto che la comunicazione verbale, facilmente utilizzata dai bambini normodotati e dagli adulti, è uno strumento che il soggetto disabile possiede in misura molto limitata. Viceversa, la comunicazione non verbale è uno strumento normalmente presente in tutti i bambini, compresi i disabili.
Questa potenzialità deve naturalmente essere incrementata e rafforzata, parallelamente allo sviluppo delle capacità linguistiche. Bisogna che il bambino sia reso consapevole della necessità di utilizzare entrambi gli strumenti. Egli deve apprendere ad usare il suo corpo non soltanto per difendersi dagli altri, ma soprattutto per comunicare con loro.
E’ auspicabile che ogni forma di riabilitazione avvenga mediante un bombardamento di stimoli diffusi (visivi, uditivi, tattili, gustativi e muscolari).
Individuate le lacune e le carenze nello sviluppo senso-percettivo, psico-motorio e motorio, morfofunzionale, intellettivo, linguistico o caratteriale, è necessario predisporre una programmazione accurata dell’intervento educativo.
L’individualizzazione dell’insegnamento richiede una programmazione accurata dell’intervento educativo in funzione delle esigenze dell’allievo, delle sue capacità e dei suoi interessi. Qualunque sia il disturbo specifico del disabile, l’intervento deve essere globale e non sintomatico, ossia deve mirare sempre alla formazione della personalità.
Per la sua preparazione specialistica, il docente di sostegno occupa, nei confronti degli altri docenti del Consiglio di Classe, una posizione paritaria e non subalterna. Partecipa a pieno titolo e con pari dignità professionale alle attività di programmazione in tutte le classi in cui è inserito un soggetto disabile.
Collaborazione tra scuola e famiglia
L’insegnante ha il dovere di collaborare con la famiglia per far sì che venga adottato, nei confronti del bambino disabile, un atteggiamento equilibrato, improntato sulla serenità e sulla fiducia. E’ pericoloso indurre nei genitori l’insorgenza di eccessive speranze prospettando traguardi difficilmente raggiungibili. Risulta però ugualmente negativo un atteggiamento rassegnato e rinunciatario nei confronti del mistero rappresentato dall’handicap! E’ opportuno, invece, chiarire le difficoltà che il bambino presenta, in modo da analizzare congiuntamente le possibilità di recupero e le modalità per ottenere dei risultati, anche se modesti.
E’ importante, infine, non lasciare la famiglia del tutto impreparata o, peggio, isolata ad affrontare il problema. Gli insegnanti di classe, l’insegnante di sostegno e i genitori potranno discutere sull’opportunità di organizzare il tempo libero del bambino, di facilitargli l’interazione con i compagni di scuola e con altri bambini ed eventualmente di programmare interventi specializzati, da effettuarsi al di fuori dell’ambito scolastico.
L’inserimento sociale
L’interazione con i compagni risulta particolarmente significativa per il piccolo disabile, il quale può apprendere attraverso l’imitazione. I compagni costituiscono una fonte di stimolazione continua e sempre nuova, proponendo situazioni e attività diversificate, che arricchiscono il suo bagaglio esperienziale. Ai fini della socializzazione di tutti i bambini, è bene favorire la coesione del gruppo-classe e la formazione di relazioni interpersonali gratificanti per tutti.
I compagni del disabile apprendono ad accettare tutti, a non temere la “diversità”, che è sempre fonte di arricchimento e di confronto e non è mai limitante: in questo modo essi matureranno sul piano affettivo e sociale.
La scuola riveste una funzione prevalentemente formativa e socializzante, condizione basilare per l’inserimento sociale di tutti i bambini che la frequentano e soprattutto dei piccoli handicappati. Essa può porsi come punto di congiunzione tra la famiglia e il territorio, per far sì che la comunità acquisisca, nei confronti del diverso, un atteggiamento di piena accettazione e disponibilità e per far sì che a tutti i suoi membri sia riconosciuto il pieno rispetto in quanto persone e che sia loro consentito di rivestire un ruolo di impegno attivo e partecipe nella vita collettiva.
Ancor prima di qualsiasi struttura sociale, la scuola deve eliminare le barriere architettoniche che impediscono al disabile di accedere ai servizi ed alle attività di cui fruiscono i suoi compagni e che lo fanno automaticamente escludere da qualsiasi attività scolastica. Inoltre devono essere adottate tutte le precauzioni per consentirgli di partecipare alle visite guidate e alle gite, alle attività di tempo libero e a tutte le opportunità offerte dalla scuola.
La legislazione attuale impone l’abolizione delle barriere architettoniche dalle biblioteche, dagli impianti ricreativi e sportivi, dalle sale cinematografiche e da tutti i pubblici uffici. La scuola può sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi e le difficoltà avvertite dai soggetti meno dotati, può facilitare la formazione di atteggiamenti collaborativi da parte dei compagni, delle loro famiglie e di tutta la realtà extrascolastica nei confronti dei bambini sofferenti.
L’avviamento al lavoro
La scuola deve favorire il conseguimento di qualifiche specializzate per tutti, facilitando l’accesso dei soggetti svantaggiati ai corsi di formazione professionale. Tale possibilità faciliterà l’avviamento del disabile al lavoro, fornendogli un ruolo che, oltre a garantirgli un certo benessere sul piano economico e una relativa autonomia, eserciterà anche un’indubbia funzione socializzante. Compiere un’attività formativa dà all’individuo un senso di autonomia, gli infonde fiducia in sé, lo valorizza, gli permette di inserirsi nell’ambiente sociale acquisendo un proprio ruolo e lo induce ad affrontare gli altri su un piano di parità, superando la sua diversità e uscendo dall’isolamento sociale.
La legge per l’inserimento e l’integrazione dei disabili nel mondo del lavoro.
La legge n. 68 del 12/3/1999 si riferisce a persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e a portatori di handicap intellettivo, con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, agli invalidi del lavoro con invalidità superiore al 33%, a non vedenti e sordomuti, agli invalidi di guerra con minorazioni suddivise in otto categorie.
La legge impone alle aziende pubbliche e private che hanno da 36 a 50 dipendenti di occupare almeno il 4% di persone affette da disabilità fisica, psichica o sensoriale. Tale percentuale sale al 7% se il numero di dipendenti è superiore a 50. Sono previste pesanti sanzioni amministrative per gli inadempienti.
La nuova legge sul diritto al lavoro dei disabili sostituisce la legge n.482/68 (il cosiddetto “collocamento obbligatorio”). Si introducono il “collocamento mirato”, cioè una serie di strumenti che consentano di valutare le capacità lavorative dei disabili e di inserirli in mansioni adatte, incentivi economici per chi assume disabili particolarmente compromessi e per l’adeguamento dei posti di lavoro… Attraverso convenzioni sarà possibile inserire persone disabili (e computarle ai fini degli obblighi di legge) presso le cooperative sociali di tipo B, alle quali i datori di lavoro si impegnano ad affidare commesse produttive.
(Da Annuario Sociale 2000, Gruppo Abele, Feltrinelli Milano 2000).
"Il problema essenziale … era quello di accettare la realtà senza volerla modificare con le nostre paure o le nostre aspettative e di comportarci senza tener conto di queste ultime. È emersa in molti genitori un’eccessiva apprensione per le esperienze negative cui potevano andare incontro i bambini (per esempio nei rapporti con i compagni di scuola e gli insegnanti). Si è capito che in realtà il problema non è di evitare tutte le frustrazioni, che assolvono del resto una funzione necessaria nel rafforzamento della personalità, ma di rafforzare le difese contro tali frustrazioni. Insomma l’obiettivo non è di crescere il bambino handicappato in un ambiente asettico e pietistico, ma di dargli fiducia nei suoi mezzi e lucidità e consapevolezza nell’affrontare di volta in volta i suoi problemi. Non sono quindi i più proficui gli atteggiamenti eccessivamente protettivi e indulgenti.
Accettare questo punto non è stato però facile: a parole infatti la maggior parte dei genitori dichiarava di avere come meta l’autonomia dei propri figli, ma di fatto risultava dai loro stessi interventi che tale autonomia era non solo elusa o ignorata, ma addirittura temuta. Se il bambino handicappato ha bisogno dei genitori, molte volte questi ultimi hanno bisogno di lui in senso involontariamente egoistico: finiscono cioè col servirsene per celare e trasporre su di lui le proprie ansie e difficoltà personali. Per meglio chiarire questo concetto dell’autonomia in rapporto con la vita dei genitori alcune sedute sono state dedicate ai rapporti tra i genitori, prima o dopo il matrimonio e al ruolo che essi assumevano con i figli. Anche qui abbiamo rilevato molte resistenze dei partecipanti. Poche le coppie che accettavano di parlare dei loro contrasti anche se questi si rivelavano molto utili per illuminare i rapporti con i figli.
…Certi atteggiamenti di fuga e irresponsabilità dei genitori (soprattutto i padri) erano legati a delusioni nate da aspettative puerili o eccessive. Non pochi problemi si sarebbero semplificati con un’accettazione più serena dell’autonomia dei figli e con un rispetto più profondo delle loro particolari esigenze. Si è inoltre messo in chiaro che questo problema non riguarda solo la psicologia del bambino handicappato e difficile, ma l’educazione dei bambini “normali”…
Il problema si presenta molto complesso: da un lato non si deve scoraggiare il bambino proponendogli modelli di apprendimento superiori alle sue possibilità, dall’altro bisogna sollecitare al massimo queste ultime perché conseguano il meglio. Questo comporta evidentemente da parte dell’insegnante e del genitore un’attenzione particolare rivolta all’evoluzione individuale del bambino., V Bisogna chiedergli ogni volta il massimo sforzo compatibile con le sue possibilità, tenendo conto della gradualità del suo sviluppo e del continuo mutamento degli obiettivi. Per quanto riguarda lo sforzo va tenuto presente che esso è inevitabile nell’apprendimento e che, se proficuo, è perciò stesso gratificante.
Nella maggior parte dei casi l’apprendimento non procede in modo parallelo e uniforme nelle diverse discipline, ma presenta scarti o divari che vanno ogni volta interpretati: non certo per ignorarli o sottovalutarli, ma per inserirli in un sistema di giudizio comparativo che sia esauriente e globale. Approfondendo questo problema si è messo in luce che le difficoltà nell’apprendimento di talune materie (soprattutto quelle scientifiche) non riguardano solo il bambino handicappato e che una loro comprensione più adeguata può giovare anche alla pedagogia del bambino “normale”.
(Tratto da “Panorama”, 14/10/1994, pp. 162-175).
GIUSEPPE PONTIGGIA , Nati due volte, Mondatori Milano
“Nati due volte” è un romanzo sull’handicap. La storia di un professore, e di suo figlio, a cui un forcipe ha cambiato la vita. Ma prima di essere un libro sull’handicap, “Nati due volte” è una machina narrativa, con una struttura da equilibristi: scritto sfruttando le arti e i segreti di un autore onnivoro e sofisticato. Quali arti e segreti? Quelli di chi cammina su un filo teso con naturalezza. Come fosse la cosa più semplice del mondo. Ma … Pontiggia sfida non tanto i luoghi comuni sull’handicap … ma soprattutto i luoghi comuni sul romanzo... Secondo Cotroneo Pontiggia ha teso il suo filo sopra quel trauma della vita che è il pensare l’handicap come una realtà (e non soltanto come normalità) e ci ha camminato sopra. La semplicità è autentico “romanzo di formazione”.
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