GORGIA DA LENTINI - Encomio di Elena
Ornamento per una città è il valore degli eroi; per un corpo la bellezza, per un'anima la sapienza, per un'azione l'eccellenza, per un discorso la verità: ciò che è opposto a questo è disordine. Un uomo, una donna, un discorso, un'azione, una città, una cosa degna di lode devono essere lodati; mentre deve essere biasimato ciò che è indegno. Uguale errore e incapacità è biasimare ciò che deve essere lodato e lodare ciò che deve essere biasimato. E' dovere della stessa persona dire rettamente quel che deve e confutare ciò che non è detto giustamente; bisogna quindi confutare coloro che rimproverano Elena, donna intorno alla quale consona e concorde è stata la testimonianza dei poeti che hanno udito e la fama del nome, che è diventato ricordo di sciagura. Ma io voglio dare un'argomentazione al mio discorso e far cessare le accuse rivolte a lei, che gode sì cattiva fama; mettendo in luce la falsità di chi la rimprovera e mostrando il vero, voglio por fine alla ignoranza. Neppure a pochi è sconosciuto che per nascita e per stirpe la donna di cui ora si parla fu senz'altro superiore agli uomini e alle donne più grandi. E' noto infatti che sua madre fu Leda, il suo padre reale fu un dio, ma quello creduto era mortale, Tindaro e Zeus. E di questi l'uno, per il fatto che lo era, fu creduto, l'altro, perché lo si diceva, fu rifiutato, e l'uno era il più potente tra gli uomini, l'altro era signore di tutto. Nata da questi genitori ebbe bellezza pari agli dei, e avutala la possedette non ignota;: in moltissimi destò grande desiderio amoroso e con una persona sola riunì molte persone di eroi superbi per grandi qualità, dei quali gli uni possedevano abbondanza di ricchezze, gli altri gloria di antico casato, gli altri ricchezza di forza personale, gli altri potenza di acquisito sapere. E tutti vennero, spinti da amore desideroso di vittoria e da ambizione invincibile. Non dirò chi fu colui che, ottenuta Elena, soddisfece il suo amore, e per qual ragione e come lo soddisfece, perché ripetere a chi sa quello che già conosce può avere credito, ma non produce diletto. Tralasciando ora col mio discorso quell'epoca passerò all'inizio del discorso che devo fare ed esporrò le ragioni per cui era naturale che avvenisse la partenza di Elena per Troia.Certo o per volere della sorte e per decisione divina e per decreto della necessità fece quello che ha fatto oppure trascinata con la forza, o persuasa con la parola, o presa da amore. Se dunque avvenne per la prima ragione, è giusto che sia accusato chi è colpevole, perché è impossibile ostacolare il volere divino con la previdenza umana. Avviene per natura che non è il più forte a essere impedito dal più debole, ma che il più debole sia comandato e spinto dal più forte, e che il più forte guidi, il più debole segua. Dio è più potente dell'uomo per forza, per potenza, per ogni altra cosa. Se dunque sulla sorte e sul Dio deve essere rigettata l'accusa, si deve liberare Elena dalla cattiva fama. E se fu strappata con la forza e fu violentata contro ogni legge e fu offesa ingiustamente, è chiaro che ha commesso ingiustizia colui che l'ha rapita, perché l'ha oltraggiata, mentre lei che fu rapita fu sventurata, in quanto subì l'oltraggio. E' giusto perciò che il barbaro che intraprese un'azione barbara secondo la parola, secondo la legge, secondo l'azione, abbia secondo la legge privazione dei diritti pubblici, secondo la parola un'accusa, secondo l'azione una punizione. Ma lei, oltraggiata e privata della patria e spogliata dei suoi cari, come mai non dovrebbe essere a ragione compianta invece che calunniata? L'uno infatti commise ingiustizia e l'altra la subì: è giusto quindi compiangere l'una e odiare l'altro. Ma se invece fu la parola a persuaderla e a ingannarle la mente, neppure sotto questo rispetto è difficile scusarla e scioglierla dall'accusa nel modo seguente. La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione. Che tutto questo sia così, lo mostrerò. Bisogna anche mostrarlo all'opinione di chi mi ascolta. Considero la poesia nel suo complesso e la definisco come un discorso in metro. Chi la ascolta è invaso da un brivido di terrore e da compassione piena di lacrime e da un rimpianto che chiama il dolore, mentre l'anima, sotto l'efficacia della parola, di fronte a vicende o a persone a lei estranee, fortunate o sventurate, subisce una sua particolare affezione. Ora passerò a un altro argomento. Il fascino divino che avviene per mezzo della parola è generatore di piacere e liberatore dal dolore. La forza dell'incantesimo, accompagnandosi all'opinione dell'anima, la seduce e la persuade e la trasforma per mezzo del suo incanto. Duplice è l'arte dell'incanto e della magia: l'errore proprio dell'anima e l'inganno dell'opinione. Quanti persuadono e persuasero infinite persone su infiniti argomenti, inventando un menzognero discorso! Se su ogni cosa ognuno avesse il ricordo del passato, la conoscenza del presente, la previsione del futuro, il discorso, pur essendo uguale, non ingannerebbe così. Ora invece non è facile né ricordare il passato né considerare il presente né indovinare il futuro. Cosicché nella maggior parte dei casi i più offrono all'anima l'opinione come consigliera. E l'opinione, che è fallace e malsicura, circondano coloro che la usano di incerta e malsicura felicità. Quale ragione ci impedisce di credere che anche a Elena giungessero tali parole, mentre lei forse non era disposta a udirle, come se fosse rapita dalla violenza? Possiamo infatti vedere quale forza abbia la persuasione, che senza avere l'aspetto della costrizione, ne ha la potenza. E la parola che persuase l'anima costrinse l'anima, che persuase a prestar fede a quanto le veniva detto e ad approvare quanto era fatto. Dunque chi persuase ha commesso ingiustizia in quanto ha costretto, mentre l'anima persuasa, in quanto è costretta, ha cattiva fama ingiustamente. Quanto al fatto che la persuasione, aggiunta alla parola, pone anche nell'anima un'impronta nel modo che vuole, bisogna considerare innanzitutto i discorsi dei fisici che, distruggendo o formulando un'opinione al posto di un'altra, fanno sì che tutto quanto è incredibile e oscuro appaia manifesto agli occhi dell'opinione. Poi bisogna osservare i discorsi coercitivi degli agoni oratorii, in cui un discorso diletta una gran folla e la persuade se è scritto con arte, e non se è detto secondo verità; infine le dispute dei discorsi dei filosofi, in cui si mostra come facilmente la rapidità del pensiero possa mutare la fiducia della nostra opinione. La forza della parola nei riguardi dell'ordine dell'anima sta allo stesso rapporto dell'ordine dei farmaci nei riguardi della condizione del corpo. Poiché, come alcune medicine eliminano dal corpo alcuni umori ed altre altri, e le une pongono fine alla malattia altre alla vita, così anche dei discorsi gli uni addolorano, gli altri rallegrano, gli altri spaventano, gli altri incoraggiano gli uditori, gli altri con qualche malvagia persuasione avvelenano e ammaliano l'anima. Ho dimostrato che, se obbedì alla parola, Elena non commise ingiustizia, ma fu sfortunata. In un quarto discorso esaminerò la quarta accusa. Se fu amore che commise tutto questo, non sarà difficile per lei sfuggire all'accusa della colpa che le si attribuisce. Tutto ciò che vediamo non ha quella natura che noi vogliamo, ma quella che ciascuna cosa ha: attraverso la vista, peraltro, l'anima si modella anche nel carattere. Subito, quando persone nemiche si armino contro i nemici di un'armata guerriera di bronzo e ferro...se la vista li osserva, ne è sconvolta e sconvolge l'anima, cosicché spesso, come se ci fosse pericolo del futuro, fuggono spaventati. Infatti, la consuetudine della legge, per quanto forte è scacciata dal timore proveniente dalla vista: essa, presentandosi, fa sì che non ci curiamo del bello che risulta dalla legge e del bene che nasce dalla vittoria. E alcuni, vedendo cose spaventose, perdono anche il senno che hanno in quel momento: a tal punto la paura spegne e scaccia l'intelligenza. Molti cadono in terribili malattie e in gravi affanni e in incurabili follie: a tal punto la vista imprime nella mente le immagini di tutto ciò che è veduto. Tralascio molte cose spaventose, ma ciò che tralascio è simile a quello che ho già detto. D'altra parte anche i pittori, quando ritraendo da molte cose e molti corpi compiono perfettamente un corpo e una figura, dilettano la vista. La creazione di immagini umane e la costruzione di statue di dei offre agli occhi una dolce visione. Così per natura alcuni spettacoli addolorano la vista, altri l'appassionano. Molti spettacoli in molti generano amore e passione di molte cose e di molti corpi. Se dunque lo sguardo di Elena, rallegrato dal corpo di Alessandro, inspirò all'anima ardore e desiderio di amore, che c'è di strano? E se Eros è un dio e ha degli dei la divina potenza, come avrebbe potuto un essere più debole respingerlo e difendersi? E se è malattia umana e ignoranza dell'anima, non deve essere biasimata come errore, ma compianta come sventura. Venne dunque, come venne, per gli inganni della sorte e non per volere della mente, per necessità d'amore e non per i mezzi dell'astuzia. Dunque, come si può considerare giusto il biasimo di Elena, che, se ha compiuto quel che ha compiuto o per amore, o persuasa dalla parola, o strappata con la violenza, o costretta da necessità divina, in ogni caso sfugge all'accusa? Ho tolto col mio discorso l'infamia a una donna, sono rimasto fedele a quelle regole che ho posto all'inizio del mio parlare, ho cercato di eliminare l'ingiustizia di un biasimo e l'ignoranza di un'opinione, ho voluto scrivere questo discorso che fosse elogio di Elena e passatempo per me.
BRANI TRATTI DA OPERE DI PLATONE
LA MAIEUTICA (Dal Teeteto)
SOCRATE - Orsù dunque: tu stesso or ora indicasti la strada. Tieni come esempio la tua risposta su le potenze; e, come queste, che pur sono molte, comprendesti in un’unica specie, così anche le molte conoscenze pròvati a raccoglierle in un’unica definizione.
TEETETO – Sii certo, o Socrate, che più volte ho tentato di chiarire codesto problema, quando mi si riferivano certe domande che tu ponevi; ma in realtà né posso persuadermi di esser capace io di dare una risposta, né credo poter udire da altri quella risposta che vorresti tu; e d’altra parte nemmeno so rinunciare al desiderio di trovare una soluzione.
SOCRATE – Tu hai le doglie, caro Teeteto; segno che non sei vuoto, ma pieno.
TEETETO – Non lo so, o Socrate: io ti dico solo quello che provo.
SOCRATE - Oh, mio piacevole amico! E tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d’una molto brava e vigorosa levatrice, di Fenàrete?
TEETETO – Questo sì, l’ho sentito dire.
SOCRATE - E che io esercito la stessa arte l’hai sentito dire?
TEETETO – No, mai!
SOCRATE - Sappi dunque che è così. Tu però non andarlo a dire agli altri. Non lo sanno, caro amico, che io possiedo quest’arte; e, non sapendolo, non dicono di me questo, bensì ch’io sono il più stravagante degli uomini e che non faccio che seminar dubbi. Anche questo l’avrai sentito dire, è vero?
TEETETO – Sì.
SOCRATE - E vuoi che te ne dica la ragione?
TEETETO – Volentieri.
SOCRATE - L’ufficio delle levatrici è grande, ma pur minore di quello che fo io. Difatti alle donne non accade di partorire ora fantasmi e ora esseri reali, e che ciò sia difficile a distinguere: ché se codesto accadesse, grandissimo e bellissimo ufficio sarebbe per le levatrici distinguere il vero e il non vero, non ti pare?
TEETETO – Sì, mi pare.
SOCRATE - Ora la mia arte di ostetrico in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile … di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo… Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto… Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me… Ebbene, mio eccellente amico, tutta questa storia io l’ho tirata in lungo proprio per questo, perché ho il sospetto che tu, e lo pensi tu stesso, sia gravido e abbia le doglie del parto. E dunque affidati a me, che sono figliol di levatrice e ostetrico io stesso; e a quel che ti domando vedi di rispondere nel miglior modo che sai. Che se poi, esaminando le tue risposte, io trovi che alcuna di esse è fantasma e non verità, e te la strappo di dosso e te la butto via, tu non sdegnarti meco … Già molti, amico mio, hanno verso di me questo malanimo, tanto che sono pronti addirittura a mordermi se io cerco di strappar loro di dosso qualche scempiaggine; e non pensano che per benevolenza io faccio codesto … né in verità per malevolenza io faccio mai cosa simile, ma solo perché accettare il falso non mi reputo lecito, né oscurare la verità.
CONOSCERE E’ RICORDARE (Dal Menone di Platone)
MENONE – Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi?
SOCRATE – Capisco quello che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ l’argomento che proponi, secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa che cosa cerca.
MENONE – E non ti sembra, Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto?
SOCRATE – A me no!
MENONE - Dimmi perché!
SOCRATE - Certo! Perché ho sentito dire da uomini e donne assai indottrinati nelle cose divine …
MENONE – Cosa dicevano?
SOCRATE - Cose vere, mi sembra, e belle.
MENONE – Quali? E chi sono coloro che le dissero?
SOCRATE - Sacerdoti e sacerdotesse, quelli a cui stava a cuore saper rendere ragione del proprio ministero. E quelle stesse cose dice anche Pindaro e molti altri poeti, i poeti divini. E questo dicono – ma vedi se ti sembra che dicano il vero – dicono, dunque, che l’anima umana è immortale, e che ora essa ha un suo compimento – il che si dice morire – ora rinasce, ma che mai essa va distrutta; ecco perché, dicono, bisogna trascorrere la vita il più santamente possibile.
L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è dunque da stupirsi se può far riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Nulla impedisce che l’anima, ricordando … una sola cosa, trovi da sé tutte le altre… Cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza (anamnesi).
MENONE – Sì, o Socrate, ma in che senso dici che non apprendiamo e che quello che denominiamo apprendere è reminiscenza? Puoi insegnarmi che sia davvero così?
SOCRATE - Mi chiedi ora s’io ti possa insegnare, proprio a me che sostengo non esistere insegnamento, ma reminiscenza, per vedermi cadere subito in contraddizione con me stesso.
MENONE – No, per Zeus, Socrate, non avevo affatto questa intenzione, ma l’ho fatto per abitudine. E allora, se puoi, comunque sia, dimostrarmi che è davvero così dimostramelo!
Socrate dà una prova della sua teoria facendo dimostrare a Menone, uno schiavo ignorante della matematica, il teorema di Pitagora. L’esperimento riesce completamente e dimostra come, aiutato da opportune domande, chiunque possa apprendere. Insegnare non è allora altro che aiutare nel cammino interiore di anamnesi di ciò che l’anima già sa, ma che ancora non vede.
SOCRATE: Chiama uno dei tuoi numerosi servi, affinché su di lui ti possa dare la dimostrazione.
MENONE: Certo. Vieni qui, ragazzo!
SOCRATE: E' greco e parla greco?
MENONE: Si, perfettamente. E' nato in casa.
SOCRATE: Fa' bene attenzione, se ti sembra che si ricordi o che impari da me.
MENONE: Presterò attenzione.
SOCRATE: Dimmi un po', ragazzo, sai che questa qui è un'area quadrata (abcd)?
RAGAZZO: Si.
SOCRATE: Il quadrato è dunque una superficie che ha uguali tutti questi lati, che sono quattro (ab, bc, cd, da).
RAGAZZO: Certamente.
SOCRATE: E non ha forse uguali anche queste linee qui, che lo attraversano nel mezzo (ac, bd)?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E non potrebbe esserci forse una superficie come questa e più grande e più piccola?
RAGAZZO: Certamente.
SOCRATE: Se dunque questo lato (bc) fosse di due piedi, e anche questo (dc) di due, di quanti piedi sarebbe l'intero? Fa questa considerazione: se da questa parte (ab) fosse di due piedi e da quest'altra (bc) di uno solo, la superficie non sarebbe forse di una volta due piedi?
RAGAZZO: Sì .
SOCRATE: Ma, poiché anche da questa parte (bc) è di due piedi, non diventa di due volte due piedi?
RAGAZZO: Sì, diventa.
SOCRATE: Diventa, perciò, di due volte due piedi?
RAGAZZO: Esatto .
SOCRATE: E quanti sono, allora, due volte due piedi? Fa' il conto e dillo.
RAGAZZO: Quattro, o Socrate.
SOCRATE: E non potrebbe darsi un'altra superficie doppia di questa, ma tale da avere tutti i lati eguali come questa?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: Di quanti piedi sarà dunque?
RAGAZZO: Di otto.
SOCRATE: E ora cerca di dirmi di quanto sarà ciascun lato di essa. Il lato di questa è di due piedi; e, allora, di quanto sarà quello di quella doppia?
RAGAZZO: E' chiaro, o Socrate, che sarà doppio.
SOCRATE: Vedi, o Menone, che io non gli insegno, ma che lo interrogo su ogni cosa? Ed ora, costui ritiene di sapere quale sia il lato dal quale deriverà l'area di otto piedi: o non ti sembra?
MENONE: A me sì.
SOCRATE: E lo sa, dunque?
MENONE: Per nulla.
SOCRATE: Però ritiene che derivi dal lato doppio.
MENONE: Sì.
SOCRATE: Osserva come verrà via via ricordandosi, come appunto deve ricordarsi. E tu dimmi: dal lato doppio, dici che ha origine la superficie doppia? E tale, dico, che non sia di qui lunga e di qui corta, ma che sia eguale da ogni parte come questa qui, però doppia di questa, ossia di otto piedi. Ma sta' attento, se ti sembra ancora che possa derivare dal lato doppio.
RAGAZZO: A me sì.
SOCRATE: E non diventa forse questo lato (ae) doppio di questo (ab), se ne aggiungiamo un altro come questo, da questa parte (be)?
RAGAZZO: Certamente.
SOCRATE: Da questo (ae), dici tu, deriverà la superficie di otto piedi, quando si tracceranno quattro lati come questi .
RAGAZZO: Esattamente.
SOCRATE: Ma in questa superficie non ci sono forse queste quattro qui (abcd, befc, cfgh, dchi), delle quali ognuna è uguale a questa di quattro piedi (abcd)?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: Disegnamo , allora , a partire da questo 4 lati uguali . E' oppure no questa la superficie (aegi) che tu affermi essere di 8 piedi ?
RAGAZZO : Esattamente .
SOCRATE : Ma in questa superficie non vi sono forse queste 4 qui ( abcd , befc , cfgh , dchi ) , delle quali ognuna é uguale a questa di 4 piedi ?
RAGAZZO : Sì
SOCRATE: E quanto diventa allora? Non diventa quattro volte questa?
RAGAZZO: E come no?
SOCRATE: E allora, è il doppio quattro volte tanto?
RAGAZZO: No, per Zeus.
SOCRATE: Ma quante volte?
RAGAZZO: Quadruplo.
SOCRATE: Dunque, dal lato doppio, o ragazzo, non deriva una superficie doppia ma quadrupla.
RAGAZZO: Dici il vero.
SOCRATE: E quattro volte quattro, fanno sedici, no?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E allora, quella di otto piedi da quale lato? Non se ne ottiene da questo (ae) una quadrupla?
RAGAZZO: Sì, lo dico.
SOCRATE: E quella di quattro, dalla metà di questo qui (ae)?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: Ebbene, l'area di otto piedi non è forse doppia di questa qui (abcd), e metà di quest'altra (aegi)?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E allora, non deriverà da un lato maggiore rispetto a questo (ab), ma minore rispetto a quest'altro (ae); o no?
RAGAZZO: Così mi pare.
SOCRATE: Bene; quello che a te sembra devi rispondere. E dimmi: questo lato (ab) non era di due piedi e quest'altro (ae) di quattro?
RAGAZZO: Si.
SOCRATE: Bisogna allora che il lato della superficie di otto piedi sia maggiore di questo di due, ma minore di quello di quattro.
RAGAZZO: Bisogna .
SOCRATE: Cerca allora di dire di che lunghezza tu affermi che esso debba essere.
RAGAZZO: Di tre piedi.
SOCRATE: Se dev'essere di tre piedi, aggiungiamo dunque a questo lato (ab) la metà di questo (ah), e avremo i tre piedi (ah). Questi sono due piedi (ah) e questo uno (hh). Alla stessa maniera, a partire di qua si ottengono due piedi (ab) più un piede (dc). Ne deriva, così, l'area che tu dici (abil).
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: Ma se da questa parte (ab) è di tre, e da quest'altra (hi) di tre, l'intera superficie non diventa di tre volte tre piedi?
RAGAZZO: Sembra.
SOCRATE: E tre volte tre, quante volte sono?
RAGAZZO: Nove.
SOCRATE: E il doppio, di quanti piedi doveva essere?
RAGAZZO: Otto.
SOCRATE: Dal lato di tre piedi non deriva per nulla la superficie di otto.
RAGAZZO: No, certo.
SOCRATE: Ma allora d quale lato? Cerca di dircelo con esattezza; e [84A] se non vuoi fare calcoli, indicaci almeno da quale.
RAGAZZO: Ma per Zeus, o Socrate, io non lo so.
SOCRATE: Comprendi ora, o Menone, a che punto si trova attualmente nel processo del ricordare? Prima, cioè, non sapeva quale fosse il lato del quadrato di otto piedi, come del resto neppure ora lo sa; tuttavia, allora credeva di saperlo, e rispondeva con sicurezza come se sapesse e non riteneva di aver dubbi; ora è convinto di aver dubbi e come non sa, così neppure crede di sapere.
MENONE: Dici il vero.
SOCRATE: Non si trova dunque, ora, in una situazione migliore, relativamente alla cosa che non sapeva?
MENONE: Anche questo mi pare:
SOCRATE: Avendolo fatto dubitare, pertanto, e avendolo fatto intorpidire come fa la torpedine, gli abbiamo forse nuociuto?
MENONE: Non mi pare.
SOCRATE: Dunque, come sembra, gli abbiamo recato giovamento, al fine della ricerca di come stia effettivamente la cosa. Ora, infatti, ricercherebbe anche di buon grado, dal momento che non sa; mentre allora, facilmente, di fronte a molti e spesso avrebbe creduto di dire bene, affermando che per ottenere una superficie doppia, bisogna prendere il lato doppio in lunghezza.
MENONE: Sembra.
SOCRATE: Credi, dunque, che egli si sarebbe messo a cercare o ad imparare ciò che egli riteneva di sapere non sapendolo, prima che fosse caduto nel dubbio ritenendo di non sapere, e che avesse desiderato di conoscere?
MENONE: Non mi pare, o Socrate.
SOCRATE: Dunque, l'intorpidimento gli ha giovato?
MENONE: Mi sembra.
SOCRATE: Osserva, ora, da questo dubbio come scoprirà la verità, ricercando insieme a me, mentre io non farò altro che interrogarlo, senza insegnargli. . E fa bene attenzione che tu non mi colga ad insegnargli o a spiegargli, e non solo ad interrogarlo intorno alle sue convinzioni. Dimmi, dunque: non è di quattro piedi questa superficie (abcd)? Comprendi?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: Potremmo aggiungere ad essa quest'altra eguale (befc)?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E quest'altra terza, uguale a ciascuna di queste (cfgh)?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E non potremmo anche completare la figura in questo ancolo (dchi)?
RAGAZZO: Certamente.
SOCRATE: E non risulteranno queste quattro superfici eguali ?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E, allora, tutto questo intero (aegi), quante volte diventa più grande di questo (abcd)
RAGAZZO: Quattro volte.
SOCRATE: Per noi, invece, doveva essere il doppio; o non ricordi?
RAGAZZO: Certamente.
SOCRATE: E questa linea tracciata da un angolo all'altro (bd, bf, fh, hd), non viene forse a dividere a metà ciascuna di queste superfici?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: Non si ottengono, dunque, queste quattro linee uguali racchiudenti quest'area qui (bfhd)?
RAGAZZO: Sì, si ottengono.
SOCRATE: Considera allora: quanto grande è questa superficie (bfhd)?
RAGAZZO: Non lo so.
SOCRATE: Di questi quadrati, che sono quattro, ciascuna linea non ha tagliato internamente la metà di ciascuno? O no?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E quante ve ne sono di queste metà in questa figura (bfhd)?
RAGAZZO: Quattro.
SOCRATE: E quante in quest'altra (abcd)?
RAGAZZO: Due.
SOCRATE: E il quattro che cos'è rispetto al due?
RAGAZZO: Il doppio.
SOCRATE: Questa superficie, dunque, di quanti piedi diventa?
RAGAZZO: Di otto piedi.
SOCRATE: Da quale linea?
RAGAZZO: Da questa (a'b).
SOCRATE: Da quella che abbiamo tracciata da un angolo all'altro del quadrato di otto piedi?
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: Coloro che se ne intendono chiamano questa linea diagonale; sicché, se essa ha nome diagonale, allora dalla diagonale, come tu dici, o ragazzo di Menone, si può ottenere l'area doppia.
RAGAZZO: Certamente, o Socrate.
SOCRATE: Che cosa ti sembra, o Menone? C'è qualche pensiero da lui espresso che non sia suo ?
MENONE: No, tutti suoi.
SOCRATE: Eppure, non sapeva, come dicevamo poco fa.
MENONE: Dici il vero.
SOCRATE: E c'erano in lui questi pensieri o no?
MENONE: Sì.
SOCRATE: Dunque, in chi non sa intorno alle cose che non sa, vi sono opinioni vere che ad esse si riferiscono?
MENONE: Sembra.
SOCRATE: Ora in lui, come un sogno, sono state suscitate queste opinioni; e, interrogandolo di nuovo più volte e in molti modi su queste stesse cose, sta certo che finirà per sapere con precisione, sulle medesime, non meno esattamente di ogni altro .
MENONE: Pare proprio di sì.
SOCRATE: Dunque, egli saprà senza che nessuno gli insegni, ma solo che lo interroghi, traendo egli stesso la scienza da se medesimo.
RAGAZZO: Sì.
SOCRATE: E questo trarre la scienza di dentro a sé, non è ricordare?
MENONE: Certamente.
SOCRATE: E la scienza che ora egli possiede, o la imparò un tempo o la possedette sempre.
MENONE: Sì.
SOCRATE: Dunque, se la possedette sempre, fu anche sempre conoscente; e se, invece, l'ha appresa in un tempo, non poté certo averla appresa nella presente vita. Oppure gli insegnò qualcuno geometria? Costui, infatti, farà lo stesso per tutta la geometria, e per tutte quante le altre scienze. C'è, forse, uno che gli abbia insegnato tutto? A buon diritto tu devi saperlo: non per altro, perché è nato ed è stato allevato in casa tua.
MENONE: Ma lo so che nessuno gli ha mai fornito insegnamenti.
SOCRATE: Ed ha o non ha queste conoscenze?
MENONE: Necessariamente, o Socrate, sembra.
SOCRATE: Allora, se non le ha acquisite nella presente vita, questo non è ormai evidente, ossia che le ebbe e le apprese in un altro tempo?
MENONE: E' chiaro.
SOCRATE: E non è forse questo il tempo in cui egli non era uomo?
MENONE: Sì .
SOCRATE: Se, allora, e nel tempo in cui è uomo e nel tempo in cui non lo è, vi sono in lui opinioni vere, le quali, risvegliate mediante l'interrogazione, diventano conoscenze, l'anima di lui non sarà stata in possesso del sapere sempre in ogni tempo? E' evidente, infatti , che, nel corso di tutto quanto il tempo, talora è e talora non è uomo.
MENONE: E' chiaro.
SOCRATE: Se, dunque, sempre la verità degli esseri è nella nostra anima, l'anima dovrà essere immortale. Sicché bisogna mettersi con fiducia a ricercare ed a ricordare ciò che attualmente non si sa: questo è infatti ciò che non si ricorda.
L’EDUCAZIONE DELLE DONNE
(Da La Repubblica)
- Ebbene, siamo coerenti e attribuiamo alla donna analoga nascita e analogo allevamento, ed esaminiamo se la cosa ci conviene o no.
- Ogni attività dev’essere comune, con l’eccezione che li impieghiamo tenendo presente che le une sono più deboli, gli altri più vigorosi.
- Se dunque impieghiamo le donne per gli identici scopi per i quali impieghiamo gli uomini, identica dev’essere l’istruzione che diamo loro.
- Sì.
- Ora, agli uomini si sono date musica e ginnastica.
- Sì.
- E allora anche alle donne si devono assegnare queste due arti e i compiti bellici, e le dobbiamo impiegare con gli stessi criteri.
- E’ una conclusione ovvia da quello che dici.
- Però molti punti di questo nostro discorso, se verranno messi in pratica nel modo che diciamo, forse potranno apparire contro la tradizione e ridicoli.
- Certo.
- Di questo discorso che cos’è che tu vedi come molto ridicolo? Non è, evidentemente, scorgere le donne far ginnastica ignude nelle palestre insieme con gli uomini, non soltanto le giovani, ma perfino le anziane?
- Sì, per Zeus! Sarebbe uno spettacolo ridicolo, almeno per i nostri tempi.
- Ora, poiché si è cominciato a parlare, non si devono temere i motteggi degli spiritosi: lasciamo pure che ne dicano quanti e quali vogliono …
- E’ possibile che non ci sia un’enorme naturale differenza tra uomo e donna?
- Se risulta che la loro differenza è data soltanto dal fatto che la femmina partorisce … diremo che non c’è alcuna ragione di concludere che la donna differisca dall’uomo; ma continueremo a credere che i nostri guardiani e le nostre donne debbano attendere alle stesse occupazioni.
- E avremo ragione.
- E qual è l’arte o l’occupazione, tra quelle che riguardano l’organizzazione di uno stato, che riveli non identità, ma diversità di natura tra la donna e l’uomo?
- Nell’amministrazione dello stato non c’è occupazione che sia propria di una donna in quanto donna né di un uomo in quanto uomo; ma le attitudini naturali sono similmente disseminate nei due sessi; e natura vuole che tutte le occupazioni siano accessibili alla donna e tutte all’uomo, ma che in tutte la donna sia più debole dell’uomo.
- Senza dubbio.
- E dunque donna e uomo presentano la stessa naturale attitudine alla guardia dello stato, con la sola eccezione che si tratta di natura più debole o più vigorosa.
- E’ evidente.
- Eccoci dunque al punto di prima, a riconoscere che non è contro natura assegnare alle donne dei guardiani musica e ginnastica.
- Per quello che riguarda il modo di far diventare guardiana una donna, non è vero che l’educazione delle nostre donne non sarà diversa dall’educazione dei nostri uomini, soprattutto perché si esercita sulla stessa natura?
- Non sarà diversa.
- E queste donne guardiane non saranno le migliori tra le donne?
- Anche questo, certamente.
- E ci può essere di meglio per uno stato che vi nascano donne e uomini quanto mai ottimi?
- Non v’è di meglio.
- Perciò le donne dei guardiani devono spogliarsi, dato che si vestiranno di virtù anziché di abiti; e cooperare nella guerra e negli altri compiti di guardia dello stato.
IL MITO DELLA CAVERNA
(Da La Repubblica)
- Paragona la nostra natura a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.
- Vedo.
- Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, com’è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.
- Strana immagine è la tua, e strani sono quei prigionieri.
- Somigliano a noi; e credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?
- E come possono, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?
- E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?
- Sicuramente.
- Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, n on credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?
- Per forza.
- E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?
- Io no, per Zeus.
- Per tali persone, insomma, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.
- Per forza.
- Esamina ora, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti ... che uno fosse … costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? E se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?
- Certo.
- E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui non può sostenere la vista? E non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati?
- E’ così.
- E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.
- Non potrebbe, certo, almeno all’improvviso. Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore.
- E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi.
- Come no?
- Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.
EPICURO - LETTERA A MENECEO SULLA FELICITA’
Nessuno, mentre è giovane, indugi a filosofare, né vecchio di filosofare si stanchi: poiché ad acquistarsi la salute dell’animo non è immaturo o troppo maturo nessuno.
E chi dice che ancor non è venuta, o già passò l’età di filosofare, è come dicesse che d’esser felice non è ancor giunta l’età o già trascorse. Attendano dunque a filosofare, e il giovane ed il vecchio; questi affinché nella vecchiezza si mantenga giovane in felicità, per riconoscente memoria dei beni goduti, quegli affinché sia ad un tempo giovane e maturo di senno, perché intrepido dell’avvenire. Si mediti dunque su quelle cose che ci porgono la felicità; perché, se la possediamo, nulla ci manca, se essa ci manca, tutto facciamo per possederla.
Medita perciò e pratica le massime che sempre ti diedi, ritenendole gli elementi di una vita bella. Anzitutto considera la divinità come un essere vivente incorruttibile e beato - secondo attesta la comune nozione del divino – e non attribuirle nulla contrario all’immortalità, o discorde dalla beatitudine. Ritieni vero invece intorno alla divinità tutto ciò che possa conservarle la beatitudine congiunta a vita immortale. Perché gli dei certo esistono: evidente infatti n’è la conoscenza: ma non sono quali il volgo li crede; perché non li mantiene conformi alla nozione che ne ha. Non è perciò irreligioso chi gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi. Perché non sono prenozioni ma presunzioni fallaci, le opinioni del volgo sugli dèi. Pertanto dagli dèi ritraggono i maggiori danni gli stolti e i malvagi, ed i maggiori beni i buoni e saggi; perché questi, adusati alle proprie virtù, comprendono e si fanno cari i loro simili, e ciò che vi discorda stimano alieno.
Abituati a pensare che nulla è per noi la morte: in quanto ogni bene e male è nel senso, laddove la morte è privazione del senso. Perciò la retta conoscenza che la morte è nulla per noi, rende gioibile la mortalità della vita: non che vi aggiunga interminato tempo, ma sgombra l’(immediato) rimpianto dell’immortalità. Nulla infatti nella vita è temibile, per chi sinceramente è persuaso che nulla di temibile ha il non viver più. E’ perciò stolto chi dice di temer la morte non perché venuta gli dorrà, ma perché preveduta l’addolora: infatti quello che presente non ci turba, stoltamente, atteso, ci angustia. Il più orribile dei mali, la morte, non è dunque nulla per noi; poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando la morte c’è, allora noi non siamo più. E così essa nulla importa, né ai vivi né ai morti, perché in quelli non c’è, questi non sono più. Invece, la maggior parte ora fuggono la morte come il maggiore dei mali, ora (la desiderano) come requie (dei mali) della vita; (ma il saggio né ricusa la vita), né accusa la morte; perché la vita non è per lui un male, né crede un male non più vivere. Ma come dei cibi non preferisce senz’altro i più abbondevoli, ma i più gradevoli; così non il tempo più durevole, ma il più piacevole, gli è dolce frutto.
Chi esorta invece il giovane ad una vita bella, il vecchio ad una bella morte, ha poco senno; non solo per il gradevole della vita, ma anche perché una sola è la meditazione è l’arte di ben vivere e di ben morire. Assai peggio ancora chi dice: bello non esser nato, se infatti questo dice convinto, perché non si diparte dalla vita? N’ha pieno arbitrio, se vi era deliberato fermamente: se invece scherza, dice sciocchezza in cose che non la comportano.
Agostino – Le Confessioni
Libro XI
10. 12. Non sono forse pieni della loro vecchiezza quanti ci dicono : "Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti, continuano, stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre nello stato primitivo, sempre astenendosi dall'operare? Se si sviluppò davvero in Dio un impulso e una volontà nuova di stabilire una creazione che prima non aveva mai stabilito, sarebbe ancora un'eternità vera quella in cui nasce una volontà prima inesistente? La volontà di Dio non è una creatura, bensì anteriore a ogni creatura, perché nulla si creerebbe senza la volontà preesistente di un creatore. Dunque la volontà di Dio è una cosa sola con la sua sostanza. E se nella sostanza di Dio qualcosa sorse che prima non v'era, quella sostanza viene chiamata erroneamente eterna. Che se poi era volontà eterna di Dio che esistesse la creatura, come non sarebbe eterna anche la creatura?".
TEMPO ED ETERNITÀ
11. 13. Quanti parlano così non ti comprendono ancora, o sapienza di Dio, luce delle menti. Non comprendono ancora come nasce ciò che nasce da te e in te. Vorrebbero conoscere l'eterno, ma la loro mente volteggia ancora vanamente nel flusso del passato e del futuro. Chi la tratterrà e la fisserà, affinché, stabile per un poco, colga per un poco lo splendore dell'eternità sempre stabile, la confronti con il tempo mai stabile, e veda come non si possa istituire un confronto, come il tempo dura per il passaggio di molte brevi durate, che non possono svolgersi simultaneamente, mentre nell'eternità nulla passa, ma tutto è presente, a differenza del tempo, mai tutto presente; come il passato sia sempre sospinto dal futuro, e il futuro segua sempre al passato, e passato e futuro nascano e fluiscano sempre da Colui che è l'eterno presente? Chi tratterrà la mente dell'uomo, affinché si stabilisca e veda come l'eternità stabile, non futura né presente, determini futuro e presente? Sarebbe la mia mano capace di tanto, o la mano della mia bocca produrrebbe con parole un effetto così grande?
Risposte: Dio non faceva alcunché.
12. 14. Ecco come rispondo a chi chiede: "Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra". Non rispondo come quel tale, che, dicono, rispose, eludendo con una facezia l'insidiosità della domanda: "Preparava la geenna per chi scruta i misteri profondi". Altro è capire, altro è schernire. Io non risponderò così. Preferirei rispondere: "Non so ciò che non so", anziché in modo d'attirare il ridicolo su chi ha posto una domanda profonda, e la lode a chi diede una risposta falsa. Invece dico che tu, Dio nostro, sei il creatore di ogni cosa creata; e se col nome di cielo e terra s'intende ogni cosa creata, arditamente dico: "Dio, prima di fare il cielo e la terra, non faceva alcunché". Infatti, se faceva qualcosa, che altro faceva, se non una creatura? Oh, se io sapessi quanto desidero con mio vantaggio di sapere, allo stesso modo come so che non esisteva nessuna creatura avanti la prima creatura!
Non v’è tempo senza creazione.
13. 15. Se qualche spirito leggero, vagolando fra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi e tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? e come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l'iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra, non si può dire che ti astenevi dall'operare. Anche quel tempo era opera tua, e non poterono trascorrere tempi prima che tu avessi creato un tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo.
L’eternità divina superiore ai tempi
13. 16. Ma non è nel tempo che tu precedi i tempi. Altrimenti non li precederesti tutti. E tu precedi tutti i tempi passati dalla vetta della tua eternità sempre presente; superi tutti i futuri, perché ora sono futuri, e dopo giunti saranno passati. Tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai. I tuoi anni non vanno né vengono; invece questi, i nostri, vanno e vengono, affinché tutti possano venire. I tuoi anni sono tutti insieme, perché sono stabili; non se ne vanno, eliminati dai venienti, perché non passano. Invece questi, i nostri, saranno tutti quando tutti non saranno più. I tuoi anni sono un giorno solo, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non è successo all'ieri. Il tuo oggi è l'eternità. Perciò generasti coeterno con te Colui, cui dicesti: "Oggi ti generai". Tu creasti tutti i tempi, e prima di tutti i tempi tu sei, e senza alcun tempo non vi era tempo.
Il concetto di tempo
14. 17. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere.
La durata del passato e del futuro
15. 18. Eppure parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendosi soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l'uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già passato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece, cessò all'istante di essere lungo, poiché cessò di essere.
La durata del presente
15. 19. Consideriamo dunque, anima umana, essendoti dato di percepire e misurare le more del tempo, se il tempo presente può essere lungo. Che mi risponderai? Cento anni presenti sono un tempo lungo? Considera prima se possano essere presenti cento anni. Se è in corso il primo di questi cento anni, esso è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, quindi non sono ancora. Se invece è in corso il secondo anno, il primo è ormai passato, il secondo presente, tutti gli altri futuri. Così per qualsiasi anno intermedio nel numero dei cento, che si supponga presente: gli anteriori saranno passati, i posteriori futuri. Perciò cento anni non potranno essere tutti presenti. Considera ora se almeno quell'unico che è in corso sia presente. Se è in corso il primo dei suoi mesi, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è ormai passato, gli altri non sono ancora. Dunque neppure l'anno in corso è presente tutto, e se non è presente tutto, un anno non è presente, perché un anno si compone di dodici mesi, e ciascuno di essi, qualunque sia, è presente quando è in corso, mentre tutti gli altri sono passati o futuri. Ma poi, neppure il mese in corso è presente: è presente un giorno solo, e se il primo, tutti gli altri sono futuri; se l'ultimo, tutti gli altri sono passati; se uno qualunque degli intermedi, sta fra giorni passati e futuri.
Nello Spirito la misura del tempo
27. 36. È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L'impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l'estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato.
LUCREZIO: De rerum natura
Incontentabilità umana e taedium vitae
Se ciascuno sapesse, quando sente gravare tanto peso sull’animo, che cosa mai lo tormenta e da dove provenga questo dolore assillante del perenne fardello che gli pesa sul cuore, non sprecherebbe il suo tempo nella continua ricerca di quello che ancora gli manca o di luoghi in cui andare per liberarsi dall’incubo: c’è che lascia la propria casa dove non vuole più stare, ma poi vi torna sollecito perché non trova al di fuori qualcosa di meglio; c’è qualcuno che corre alla sua villa in campagna e si affretta spedito come se questa dovesse bruciare: quando arriva, sbadiglia ancora prima di entrare e sprofonda nel sonno cercando l’oblio, o di nuovo si affanna per tornare in città. In questo modo si fugge solamente se stessi, ma non ci si stacca da ciò che si vuole fuggire. Come un malato che ignori la causa del proprio male: se riuscisse a scoprirla, riuscirebbe a curarsi e a vivere in modo migliore. […] Finché è lontano, ciò che desideriamo ci sembra superare ogni altra cosa; poi, quando quello ci è dato, aneliamo ad altro ancora e un uguale sete di vita perennemente ci affanna.
SENECA – Sull’ira
Se vogliamo essere giudici imparziali in ogni circostanza, cominciamo col persuaderci che nessuno di noi è senza colpa. La nostra indignazione ha origine da affermazioni del genere: “non sono colpevole”, “non ho fatto nulla”. Piuttosto, non lo confessi. Ci sdegniamo perché ci viene inflitto un rimprovero o una punizione, e nello stesso tempo commettiamo una nuova colpa, in quanto aggiungiamo alle nostre cattive azioni l’arroganza e la rivolta. Chi può dichiarare di non aver mai violato una legge? E, pur ammesso questo, che innocenza meschina è essere virtuosi secondo la legge! La regola dei doveri va molto più in là di quella del diritto. Quante obbligazioni impongono la pietà, l’umanità, la generosità, la giustizia, la lealtà, obbligazioni che non stanno scritte sulle tavole ufficiali! Ma non possiamo nemmeno avvicinarci a quella formulazione così rigida dell’innocenza: certi falli li abbiamo commessi, altri li abbiamo pensati, altri desiderati, altri favoriti: in taluni casi siamo innocenti perché la cosa non ci è riuscita. Questo pensiero ci renda più comprensivi con chi sbaglia, più docili con chi ci rimprovera . . . Abbiamo davanti agli occhi i difetti degli altri, i nostri dietro le spalle. Di conseguenza i prolungati festini sono rimproverati al figlio proprio dal padre, che è peggiore del figlio; chi nulla ha negato alla sua sfrenatezza non perdona l’altrui, il tiranno s’adira con l’omicida, il sacrilego punisce il ladro. Una gran parte di uomini s’adira non con le colpe, ma coi colpevoli. Ci renderà più moderati l’esame di noi stessi, se ci chiederemo: “ Il saggio deve liberarsi da ogni impulso sensibile e dalla dipendenza dal mondo esteriore. Non abbiamo commesso anche noi qualcosa di simile? Non abbiamo sbagliato allo stesso modo? E ci conviene condannare tali azioni?”.