POESIE AI PADRI

WILLIAM BLAKE - Il bambino perduto 

Babbo, babbo, dove vai? 
Oh, non camminare così veloce. 
Parla, babbo, parla al tuo bambino, 
O io mi perderò. 
La notte era scura, nessun padre c’era; 
Il bimbo era bagnato di rugiada; 
il fango era profondo, 
e il bimbo pianse, 
e la nebbia svanì fugace.

 

PABLO NERUDA - Il padre


Terra dalla superficie incolta e arida
terra senza corsi d'acqua né strade
la mia vita sotto il sole trema e si allunga.

Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla
come nulla poterono le stelle
che mi bruciano gli occhi e le tempie. 


Il mal d'amore mi tolse la vista
e nella fonte dolce del mio sogno
una fonte tremante si rifletté. 

Poi... chiedi a Dio perché mi dettero
ciò che mi dettero e perché poi
incontrai una solitudine di terra e di cielo.

Guarda, la mia giovinezza fu un candido germoglio
che non si aprì e perde
 la sua dolcezza di sangue e vitalità.

Il sole che tramonta e tramonta in eterno
si stancò di baciarla... È l'autunno.
Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla.

Ascolterò nella notte le tue parole:
...figlio, figlio mio ...
E nella notte immensa
resterò con le mie e con le tue piaghe.

ALFONSO GATTO - A mio padre

 

Se mi tornassi questa sera accanto

lungo la via dove scende l’ombra

azzurra già che sembra primavera,

per dirti quanto è buio il mondo e come

ai nostri sogni in libertà s’accenda

di speranze di poveri di cielo,

io troverei un pianto da bambino

e gli occhi aperti di sorriso, neri

neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,

un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.

Ora alla terra è un’ombra la memoria

della tua voce che diceva ai figli:

«Com’è bella la notte e com’è buona

ad amarci così con l’aria in piena

fin dentro al sonno». Tu vedevi il mondo

nel plenilunio sporgere a quel cielo,

gli uomini incamminati verso l’alba.

 

SALVATORE QUASIMODO - Al padre

 

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
"Baciamu li mani". Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

 

 

CAMILLO SBARBARO - A mio padre 

Padre, se anche tu non fossi il mio 
Padre se anche fossi a me un estraneo, 
per te stesso egualmente t'amerei. 
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno 
Che la prima viola sull'opposto 
Muro scopristi dalla tua finestra 
E ce ne desti la novella allegro. 
Poi la scala di legno tolta in spalla 
Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro. 
Noi piccoli stavamo alla finestra. 

E di quell'altra volta mi ricordo 
Che la sorella mia piccola ancora 
Per la casa inseguivi minacciando 
(la caparbia aveva fatto non so che). 
Ma raggiuntala che strillava forte 
Dalla paura ti mancava il cuore: 
ché avevi visto te inseguir la tua 
piccola figlia, e tutta spaventata 
tu vacillante l'attiravi al petto, 
e con carezze dentro le tue braccia 
l'avviluppavi come per difenderla 
da quel cattivo che eri il tu di prima. 

Padre, se anche tu non fossi il mio 
Padre, se anche fossi a me un estraneo, 
fra tutti quanti gli uomini già tanto 
pel tuo cuore fanciullo t'amerei. 

LEONARDO SINISGALLI - A Mio Padre

L'uomo che torna solo
A tarda sera dalla vigna
Scuote le rape nella vasca
Sbuca dal viottolo con la paglia
Macchiata di verderame.
L'uomo che porta così fresco
Terriccio sulle scarpe, odore
Di fresca sera nei vestiti
Si ferma a una fonte, parla
Con un ortolano che sradica i finocchi.
È un uomo, un piccolo uomo
Ch'io guardo di lontano.
È un punto vivo all'orizzonte.
Forse la sua pupilla
Si accende questa sera
Accanto alla peschiera
Dove si asciuga la fronte.

 

 

GIOVANNI PASCOLI - Un ricordo 

Andavano e tornavano le rondini, 
intorno alle grondaie della Torre, 
ai rondinotti nuovi. Era d'agosto. 
Avanti la rimessa era già pronto 
il calessino. La cavalla storna 
calava giù, seccata dalle mosche, 
l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi 
dell'unghie su le selci della corte. 
Era un dolce mattino, era un bel giorno: 
di San Lorenzo. Il babbo disse: «Io vo». 
E in un gruppo tubarono le tortori. 
Esse là nella paglia erano in cova. 
Tra quel hu hu, mia madre disse: «Torna 
prestino». «Sai che volerò!» «Non correr 
tanto: la tua stornella è appena doma». 
«Eh! mi vuol bene!» «Addio». «Addio». «Vai solo? 
non prendi Jên?» «Aspetto quel signore 
da Roma...» «E` vero. Ti verremo incontro 
a San Mauro. Io sarò sotto la Croce. 
Tu ci vedrai passando». «Io vi vedrò». 
E Margherita, la sorella grande, 
di sedici anni, disse adagio: «Babbo...» 
«Che hai?» «Ho, che leggemmo nel giornale 
che c'è gente che uccide per le strade...» 
Chinò mio padre tentennando il capo 
con un sorriso verso lei. Mia madre 
la guardò coi suoi cari occhi di mamma, 
come dicendo: A cosa puoi pensare! 
E le rondini andavano e tornavano, 
ai nidi, piene di felicità. 
Mio padre palpeggiò la sua cavalla 
che l'ammusò con cenno familiare. 
Riguardò le tirelle e il sottopancia, 
e raccolte le briglie, calmo e grave, 
si volse ancora a dire: «Addio!» Mia madre 
s'appressò con le due bimbe per mano: 
la più piccina a lui toccò la mazza. 
Egli teneva il piede sul montante. 
E in un gruppo le tortori tubarono, 
e si sentì: «Papà! Papà! Papà!» 
E un poco presa egli sentì, ma poco 
poco, la canna come in un vignuolo, 
come v'avesse cominciato il nodo 
un vilucchino od una passiflora. 
Sì: era presa in una mano molle, 
manina ancora nuova, così nuova 
che tutto ancora non chiudeva a modo. 
Era la bimba che vi avea ravvolte, 
come poteva, le sue dita rosa, 
e che gemeva: «No! no! no! no! no!» 
Mio padre prese la sua bimba in collo, 
col suo gran pianto ch'era di già roco; 
e la baciò, la ribaciò negli occhi 
zuppi di già per non so che martoro. 
«Non vuoi che vada?» «No!» «Perché non vuoi?» 
«No! no!» «Ti porto tante belle cose!» 
«No! no!» La pose in terra: essa di nuovo 
stese alla canna le sue dita rosa, 
gli mise l'altro braccio ad un ginocchio: 
«No! no! papà! no! no! papà! no! no!» 
Non s'udì che quel pianto e quei singulti 
nel tranquillo mattino tutto luce. 
Più non raspava i ciottoli con l'unghia 
la cavalla, e volgea la testa smunta 
alla bimba. E le tortori, hu, hu! 
Povera bimba! non avea compiuti 
due anni, e ancor dormiva nella culla. 
Sapea di latte il suo gran pianto lungo: 
assomigliava ad un vagir notturno. 
Mio padre disse: «Non partirò più». 
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro 
la cavalla, aspettando ad un altro uscio. 
Lontanò essa con un ringhio acuto. 
E mio padre baciò la creatura, 
e le disse: «Non vado: entro; mi muto, 
e sto con te. Perché tu sia sicura, 
prendi la canna». Rabbrividì tutta 
essa, come un uccello quando arruffa 
le piume; le spianò; poi con le due 
braccia abbracciò la canna di bambù. 
Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo 
non tornò più. Non si rivide a casa. 
Lo portarono a sera in camposanto, 
lo stesero in un tavolo di marmo, 
dissero, oh! sì! dissero ch'era sano, 
e che avrebbe vissuto anche molti anni. 
Ma uno squarcio aveva egli nel capo, 
ma piena del suo sangue era una mano. 
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre, 
ciò che di lui rimase, ove sarà? 
Sorella, a volte penso che tu l'abbia, 
che tu lo tenga ancora fra le braccia. 
Così mi pare a volte, che ti guardo 
e tu non vedi, ché tu stai pregando. 
Tieni le braccia in croce, un poco lasse; 
e tieni ancora gli occhi fissi in alto. 
Stai come quando ti lasciò tuo padre; 
sicura, come allora. Ma una lagrima 
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro 
balbetta ancora, sì: «Papà! Papà!» 

dai Canti di Castelvecchio